A ruoli invertiti
Genitori che fanno i figli e figli che fanno i genitori. Molte sono le storie e i film che ruotano intorno e si sviluppano a partire da questa inversioni di ruoli, che vede padri e madri dipendere dalla propria prole. I motivi possono essere tanti, ma non dipendono esclusivamente dalla mancanza di maturità o dall’incapacità di vestire i panni genitoriali, con tutte le responsabilità che ciò comporta. Nel caso di Une vie démente (nell’edizione italiana La folle vita), opera prima di Raphaël Balboni e Ann Sirot presentata in concorso alla 39° Bergamo Film Meeting, è la malattia il motore dello switch, quella di Suzanne, una ex direttrice di una galleria d’arte che inizia a comportarsi in modo piuttosto strano a causa di un disturbo neurodegenerativo progressivo, conosciuto come demenza semantica. La patologia influisce sul suo comportamento, che diventa imprevedibile: dilapida i risparmi, si introduce a casa dei vicini nel cuore della notte e si comporta in maniera sempre più bizzarra. Il ché sconvolge i piani del figlio Alex e della sua compagna Noémie, quello di avere un bambino. I ruoli finiscono dunque per invertirsi e l’accudimento nei confronti di Suzanne diventa un insolito campo di addestramento, dove i coniugi si ritrovano a testare le loro capacità genitoriali.
Il fatto di aver vissuto in prima persona una situazione analoga ha portato la coppia belga a dare al racconto, alle sue dinamiche, al disegno dei personaggi che lo animano e alle rispettive reazioni umane e psicologiche, una grande verità. Una verità che consente a ciò che scorre sullo schermo di arrivare a toccare le corde del cuore facendole vibrare. Il merito che va riconosciuto agli autori sta in primis nell’esserci riusciti, scegliendo però un approccio più rischioso che li ha portati ad affrontare il dramma e l’argomento serio della malattia con emozione e umorismo, fantasia e leggerezza. Il tutto senza epurare, senza mai negare la gravità della situazione, mantenendo il rispetto e il tatto, l’eleganza e la delicatezza nel mostrare e nel narrare, che sono “merce” rarissima al giorno d’oggi. Ciò fa di Une vie démente una dramedy che parla di legami affettivi e sentimentali evitando la strumentalizzazione e di calcare la mano sulla sofferenza altrui. Ma è anche e soprattutto un romanzo di formazione che disegna le tappe dolorose e necessarie di un percorso di emancipazione.
Un romanzo audiovisivo, quello firmato dalla coppia belga, scritto in punta di penna, con la forma che si mette a completa disposizione dei contenuti e del ventaglio di emozioni cangianti e opposte che trapelano senza soluzione di continuità dalla fruizione, generando sostanza stratificata e coinvolgente. L’uso della macchina da presa si fa infatti volutamente grezzo per conferire alla messa in quadro un realismo imperante, che sfiora il documentarismo se non fosse per delle sospensioni che irrompono sulla timeline attraverso dei “giochi” di abbinamenti e combinazioni strambe tra costumi e scenografie. È questa l’unica licenza che Balboni e Sirot hanno deciso di prendersi in una pellicola stilisticamente asciutta, essenziale e con una cinepresa a mano libera nel pedinare i personaggi senza la zavorra di un’estetica onnipresente. La vediamo dunque al servizio della scrittura e del lavoro attoriale, che di riflesso ricambiano il “sacrificio” con delle performance che rappresentano il valore aggiunto dell’opera.
Francesco Del Grosso