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Una vita violenta

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VOTO: 7

Una finestra aperta sulla Corsica

Direttamente dalla (quasi) sempre convincente sezione Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2017, Una vita violenta – per la regia di Thierry De Peretti – è un lungometraggio che viene direttamente dalla Corsica. Una regione, la presente, di cui non ci capita così spesso di vedere prodotti cinematografici e, pertanto, un lavoro come il presente atto ad aprirci una sorta di finestra su un mondo che troppo poco conosciamo, suscita in noi ancor maggiore interesse. Ma andiamo per gradi.

Ci troviamo nel 2001. La storia messa in scena è quella del ventisettenne Stéphane (Jean Michelangeli), un ragazzo che, dopo un passato come attivista all’interno di un movimento anarchico, sentendosi minacciato dalla mafia del posto, decide di trasferirsi a Parigi e iniziare una nuova vita. Il giovane, tuttavia, si sentirà in dovere di tornare nella sua cittadina natale, Bastia, a causa dei funerali si un suo ex compagno d’armi, mettendo, così, la sua vita ulteriormente a repentaglio.
Anche il presente lungometraggio – analogamente a quanto è stato per Apache, del 2013 – mette in scena le sanguinose rappresaglie e le lotte intestine che da anni affliggono una regione come la Corsica. Tema, il presente, assai caro al regista, in quanto egli stesso ha a suo tempo avuto modo di conoscere, anche se indirettamente, ragazzi che hanno preso parte in prima persona alle suddette lotte.
Eppure, la questione dell’indipendentismo della Corsica è qualcosa che tocca da vicino ogni suo abitante, nessuno escluso. Proprio per questo motivo, Una vita violenta, ci appare come un lungometraggio estremamente personale, un lungometraggio urlato, che non ha paura di mostrarci – senza censura alcuna – scene di brutali uccisioni – come la stessa, in apertura del film, che vede l’amico del protagonista perire sotto i colpi di pistola e il conseguente incendio della propria macchina da parte degli esponenti mafiosi – e che, dall’altro canto, sviscera minuziosamente ogni ragione che ha mosso e continua a muovere il gruppo di anarchici nelle sue scelte.
Se, dunque, da un lato abbiamo scene di forte impatto emotivo spesso difficili da digerire, dall’altro vi sono anche numerosi momenti in cui sono i dialoghi a fare da protagonisti assoluti all’interno della messa in scena, con fare che tanto sta a ricordarci il cinema di Laurent Cantet e che, nel complesso, di quando in quando sembra cedere a qualche lungaggine di troppo, risultando a tratti anche ridondante.
Eppure, nel suo descrivere minuzioso una situazione tanto drammatica quanto tristemente attuale, De Peretti riesce a tracciare, in meno di due ore, un quadro completo ed esaustivo della questione, dimostrandosi sì empatico ma mai giudicante e tentando di far sì che sia la sua stessa macchina da presa a documentare i fatti, posta quasi come spettatrice silente all’interno delle abitazioni dei protagonisti (spesso collocata dietro porte socchiuse) o per strada (in cui, nel mostrarci gli atti di violenza, viene mantenuta rigorosamente fissa, talvolta anche lontana dai protagonisti e senza movimenti o stacchi di montaggio alcuni).
Per questa serie di motivi, dunque, Una vita violenta ci appare come un lungometraggio sì a suo modo imperfetto, ma anche prezioso e (quasi) unico nel suo genere.

Marina Pavido

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