Il cielo sopra Budapest
Sul satellite del pianeta Giove denominato Europa s’ipotizza possano esistere le condizioni per la nascita e lo sviluppo della vita extraterrestre. Qui sulla Terra, invece, il termine Europa definisce un continente che da molto tempo ha perso la sua vocazione per l’accoglienza e i confini aperti e adesso, dove più dove meno, dà la caccia a chi migra e si sposta alla ricerca di condizioni di vita migliori.
Forse Aryan, protagonista di Una luna chiamata Europa (titolo originale: Jupiter holdja), film dell’ungherese Kornél Mundruczó presentato nel 2017 in Concorso al Festival di Cannes ed ora distribuito in Italia, proviene da un altro pianeta. Forse invece è un angelo. In ogni caso, quello che gli accade ha dell’incredibile. Aryan e suo padre sono dei profughi siriani braccati dalla polizia ungherese alla frontiera tra Ungheria e Serbia. Il ragazzo riceve ben tre proiettili in corpo esplosi alla pistola del commissario László, eppure sopravvive. Anzi, miracolosamente impara a levarsi da terra e a volare…
Damiel e Cassiel, ne Il cielo sopra Berlino di Wenders, osservavano Berlino e i berlinesi, mescolandosi invisibili tra di loro. Aryan, invece, si ritrova nella condizione di angelo, così come lo definisce il dottor Stern che lo fa evadere dal campo profughi, all’improvviso, ma presto impara che i suoi poteri possono essere utili alla gente, e agli abitanti di Budapest, dove si trova, in particolare. Non è un film leggero quello di Mundruczó, a discapito degli elementi fantascientifici che contiene. Tutto ruota attorno al tema dell’immigrazione clandestina e alle barriere, non certamente solo metaforiche, che l’Ungheria e il suo attuale governo hanno alzato attorno ai propri confini. La parola d’ordine per i migranti che provano a varcarle è sopravvivenza: l’antefatto che ci viene raccontato all’inizio del film è avvolto nella notte, tra spari, urla, fughe e corse disperate dalla polizia.
Una luna chiamata Europa, a dire il vero, si svolge quasi per intero in un clima crepuscolare, tra le strade e sopra le strade di una Budapest dalle tinte scure e fredde. La crudeltà che vi si scorge a tratti ha l’effetto di un pugno nello stomaco. A mitigarla, o perlomeno a provarci, ci pensa Aryan che con il suo lento fluttuare in aria sfidando la gravità, in sequenze altrettanto lente accompagnate dalla bella colonna sonora di Jed Kurzel, ha il potere di dare sollievo dalle sofferenze o di castigare chi si è macchiato di una colpa qual è quella del razzismo. Chi trae profitto dai suoi miracoli è il suo protettore e coprotagonista del film, il dottor Stern, medico affatto restio a lasciarsi corrompere e manipolare sotto adeguato compenso, il quale a sua volta sfrutta Aryan per accumulare ingenti somme di denaro che nei suoi piani gli serviranno per risarcire una famiglia distrutta da un suo grave errore sul posto di lavoro.
Alieno, angelo o supereroe che sia, Aryan si configura come figura Christi. Non è, del resto, un caso che sia figlio di un falegname, come racconta. In un microsistema, quello della città di Budapest, percorso da piaghe evidenti o sotterranee (non ultima quella del terrorismo fondamentalista, con la minaccia che può aggirarsi e s’aggira tra le schiere di rifugiati in arrivo), il suo più grande miracolo è costringere tutti ad abbandonare la piatta dimensione orizzontale in cui si trascinano per guardare in alto, forse verso il cielo, forse verso le stelle e quel satellite Europa che non si vede da quaggiù. Così accade anche a Stern che, da mero approfittatore afflitto da una ferita del passato, si avvia a recuperare la sua fede non tanto in Dio quanto negli uomini. Mundruczó e la sua cinepresa, i cui movimenti seguono di frequente i protagonisti alle loro spalle e conoscono rari stacchi di montaggio, s’aggirano tra le fila di quest’umanità dolente, alla perenne ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare la propria frustrazione, incapace di levare lo sguardo verso l’alto. Fino a quando una vittima della Storia non diventa un angelo, giunto sulla Terra con la missione di salvare i suoi abitanti da se stessi. Che essi siano pronti o meno.
Marco Michielis