Dove sono gli ultras?
Dove sono gli ultras? è uno dei cori intonati più di frequente dalle curve italiane. È un canto di sfida, un peana di guerra teso a provocare i rivali dell’altra squadra, a chiamarli allo scontro. Scontro che altro non è se non il momento di massima sublimazione dell’essere ultrà, il suo apice emotivo.
In Ultras, primo lungometraggio del napoletano Francesco Lettieri, noto al grande pubblico come talentuoso regista di videoclip musicali (su tutti quelli delle canzoni del misterioso Liberato, che ha contribuito alla colonna sonora del film), lo scontro c’è ed esplode feroce a seguito dei moti di rabbia o di vendetta che animano i vari protagonisti. Gli ultras, però, non sono solo dei rissaioli e chi s’aspettava da Lettieri una nuova e rinnovata indagine nostrana su una sottocultura che dalla fine degli anni ’60 ad oggi continua, seppur profondamente trasformata, ad attirare i giovani (e non solo) delle nostre città, rimarrà deluso. Nessuno, in ogni caso, ci aveva detto che il film avrebbe indagato da vicino esclusivamente la realtà delle curve e, di conseguenza, l’operazione di Lettieri è del tutto legittimata. Ma allora di che cosa parla Ultras? La verità è che non esiste una domanda univoca a questa domanda, perché i temi affrontati sono molti e intrecciati tra loro. E forse qui sta il problema principale del film. Procediamo con ordine.
Ultras è innanzitutto il racconto di un dialogo interrotto tra generazioni, un telefono senza fili in cui il messaggio che si vuole dare a chi viene dopo di noi arriva confuso e distorto, ammesso e non concesso che fosse chiaro e ben udibile alla partenza. Al centro della storia ci sono gli Apache, fittizio gruppo ultras napoletano, probabilmente modellato su un gruppo realmente esistente, quello dei Vecchi Lions (di cui, nel film, si ode il coro storico Andai in Mozambico), che prendono posto nella curva A dello stadio San Paolo. Come in ogni gruppo, ci sono i più anziani, che non vogliono mollare la presa e che mirano a conservare il proprio lascito, i ragazzi ormai cresciuti, che scalpitano perché sanno che è arrivato il loro momento, e i giovanissimi, quest’ultimi ancora sospesi tra l’uno e l’altro polo, intenti a guardare con sguardo adorante i leader della curva e a cercare d’imitarne le imprese nel mondo del tifo estremo. I due protagonisti principali del film sono Sandro, conosciuto come il Mohicano (un Aniello Arena tutto muscoli), tra gli storici fondatori del gruppo e sottoposto a DASPO, e Angelo, ragazzo che ha perso il fratello Sasa, morto durante degli scontri con i romanisti, e che Sandro prende sotto la propria ala protettiva. Lo sfondo è quello delle ultime giornate di un campionato in cui il Napoli sembra in procinto di vincere lo scudetto, mentre i contrasti all’interno del gruppo s’allargano.
Questo filone della narrazione dovrebbe essere quello dedicato al tentativo di fotografare uno spaccato della società dedito al tifo estremo, a una vera e propria sottocultura legata al senso d’appartenenza per una città e per i colori della sua squadra. E, in effetti, non si può dire che vi si riscontri qualcosa di non veritiero: le faide interne a una tifoseria o ad un gruppo sono all’ordine del giorno nella realtà delle curve e spesso si configurano proprio come scontri intergenerazionali. Ciò che, invece, manca e non ci viene mostrato è lo spirito s’aggregazione sana ed autentica che sta alla base del vivere una passione comune e spesso totalizzante come quella del calcio, la sensazione di comunità che si viene a creare. In Ultras i membri degli Apache sono uniti solo quando si tratta di organizzare raid contro gli avversari o di scrivere striscioni dal contenuto offensivo e provocatorio. Ma questo è solo un lato della medaglia e sporadiche scene di socialità presenti nel film (vedasi quella, sostanzialmente inutile per lo sviluppo della trama, dei membri fondatori al mare impegnati a cantare Caruso di Lucio Dalla), che poco, tra l’altro, hanno a vedere con i legami che si creano tra ultras in casa o in trasferta, non bastano a non desiderare di (ri)aprire la problematica relativa a quali parametri narrativi e stilistici adottare per descrivere un mondo così complesso e dalle innumerevoli sfaccettature. Lettieri, da questo punto di vista, non si pronuncia, perlomeno in maniera esplicita, ponendo l’accento unicamente su alcuni aspetti di tale contesto sociale.
A questo filone principale s’intrecciano alcune sottotrame, come la storia d’amore tra Sandro e Terry e l’evoluzione del personaggio di Angelo. L’impressione è che Lettieri abbia tentato di raccontare una storia che avesse una sua unità e compattezza, ma l’unico ruolo che risulta sufficientemente completo e chiarito è, alla fine dei conti, quello di Sandro, ultras cinquantenne in cerca di una svolta nella propria vita, mentre le altre figure restano sullo sfondo, abbozzate così come i contesti e gli ambienti in cui si muovono, familiari o meno.
Se da un lato va evidenziata tale indecisione nel far imboccare al film una strada che possa condurlo a una meta definitiva, dall’altro non scopriamo certo con Ultras le capacità di resa estetica di Lettieri e del suo staff, capitanato dallo storico collaboratore e direttore della fotografia Gianluca Palma. Colpisce la coerenza che il regista napoletano dimostra nella definizione del proprio immaginario, popolato da quei ragazzi di vita d’eco pasoliniana che percorrono in motorino una Napoli antica, barocca, quasi ieratica, indossando tute e polo firmate che li identificano anche dal punto di vista dell’abbigliamento. Sono gli stessi ragazzi che animano i videoclip di Liberato e, del resto, la stessa influenza del cinema di Pasolini (quello degli esordi, in particolare, il Pasolini di Accattone e Mamma Roma) sullo stile e sulla poetica di Lettieri si avvertiva già dal video, bellissimo, girato in bianco e nero per il rapper Noyz Narcos e il suo pezzo Sinnò me moro.
Non basta, però, lo sguardo già pienamente riconoscibile del suo autore a fare di Ultras un lavoro riuscito. Una sceneggiatura con parecchi buchi, unita a un finale pasticciato in cui, bene o male, a differenza che nel resto del film, viene espresso un giudizio sul mondo ultras (e il giudizio è negativo, con una raffigurazione semiterroristica della trasferta romana), rendono Ultras un esordio cinematografico insicuro sulla direzione da prendere, che si muove esitante lungo troppi sentieri. Non basta nemmeno la sorta di ciclo simbolico vita-morte in cui s’inserisce la storia (con la ringkomposition della chiesetta, che all’inizio ospita un matrimonio e al termine un funerale) per evitare che alla fine della visione lo spettatore abbia l’impressione di aver attraversato un limbo narrativo e semantico non soddisfacente.
Marco Michielis