Con i nostri occhi (digitali)
Ci ha fatto enormemente piacere incrociare di nuovo lo sguardo su un’opera come Tv_Slum di Angelo Loy. L’occasione è stata la proiezione nella giornata inaugurale della seconda edizione del RomAfrica Film Festival, dove il documentario del regista romano è stato presentato nella sezione dedicata al cinema del reale. Co-prodotto da AMREF con Fandango e Indigo Film, l’opera aveva già avuto una circolazione in Italia, compresa nel mercato home video. Ma anche se datato (la produzione risale, infatti, al 2002), la scelta di riproporlo a distanza di quattordici anni dalla sua realizzazione ci è sembrata comunque una scelta azzeccata e in sintonia con le linee guida della manifestazione capitolina che, oltre ad essere una vetrina sul e per il cinema africano, vuole restituire anche una pluralità di sguardi. Quello offerto dal curatore e regista del progetto è uno di questi, ossia quello più comune che rispecchia l’immaginario comune e restituisce quella grande fetta di Continente martoriata e sofferente che siamo abituati a vedere. Ciononostante, Tv_Slum ne offre una visione non stereotipata, distaccandosi dalla speculazione e dalla spettacolarizzazione del dolore che si è soliti vedere sul grande e soprattutto sul piccolo schermo quando si mostrano e raccontano certe argomentazioni. Loy ha avuto l’intelligenza di trovare una chiave diversa e grazie ad essa il documentario ha preso le giuste distanze da altre produzione analoghe. Non è un caso, dunque, che venga riproposto e apprezzato anche a distanza di così tanto tempo.
Questa chiave corrisponde a uno sguardo che viene, si nutre e si sviluppa totalmente dall’interno, consegnando al fruitore un reportage “scritto” a più mani che assomiglia a un video-diario in presa diretta, nel quale trova spazio la durezza e l’epica della vita di strada, con il suo carico di speranza e ingiustizia al seguito. Tv_Slum è un documentario interamente girato da otto ragazzi di strada dello slum di Kawangware, a Nairobi. Una selezione, questa, che corrisponde a una goccia d’acqua di un mare in cui navigano ogni giorno più di 130.000 ragazzi, comunemente chiamato nella lingua locale “Chokora”, ossia “spazzatura”. Nelle loro mani la videocamera non solo svela una realtà senza compromessi ma diventa uno strumento di redenzione. La conoscenza del terreno minato e spietato, al quale appartengono, ha consentito loro di raggiungere le viscere di una cloaca altrimenti inaccessibile, di mostrare ciò che ad altri con moltissima probabilità non sarebbe stato concesso di filmare, ma anche di entrare in contatto con tutta una serie di persone altrimenti off limit (Njoroge ha 23 anni, dorme nella discarica e decide di andare a trovare suo padre in campagna per rimediare un po’ di quattrini. Kiki, un ex campione di Tae Kwon Do, sogna di riabilitare i ragazzi di strada attraverso le arti marziali. Mama Wangotho alleva maiali e con quello che guadagna sfama ogni giorno decine di ragazzi di strada). Ed è questa capacità di penetrare in questo habitat e nelle persone che lo popolano, sbandati che soffrono la fame, vivono di stenti, subiscono e provocano dolore, sniffano colla per alleviare il male di vivere, a contribuire alla composizione audio-video di un’esperienza filmica straziante e intensa, che lascia nello spettatore una sensazione di malessere difficile da scrollarsi di dosso.
La vera forza dell’operazione sta dunque nel suo approccio in soggettiva, nel suo modo di prendere forma e sostanza attraverso una formula che si basa sulla scomposizione e sulla moltiplicazione dell’hardware. Formula che Loy ha replicato con gli stessi buoni esiti sette anni dopo nel pregevole Lo sguardo dei turchi, che racconta la città di Palermo attraverso il punto di vista di un gruppo di giovani degli slums di Nairobi (i palermitani chiamano “turco” chiunque abbia la pelle nera). E la mente torna anche a Intervista a mia madre della coppia Giovanni Piperno-Agostino Ferrente che, del suddetto approccio narrativo e tecnico, si era avvalso due anni prima che lo facesse Loy. Dunque, diamo a Cesare quello che è di Cesare.
Certo la qualità delle immagini era e resta scadente, perché frutto del lavoro dietro la videocamera di non professionisti, ma la verità e la potenza che si trascinano dietro sono di una forza a tratti devastante, tanto da mandare in secondo piano i palesi limiti tecnici della fruizione.
Francesco Del Grosso