I Bigfoot preferiscono le more
Valley of the Sasquatch è uno di quei film capaci di far scaturire nella platea di turno, in questo caso quella presente alla proiezione capitolina della 36esima edizione del FantaFestival, uno di quei dubbi amletici che solo un passo falso commesso sulla timeline può sciogliere in via definitiva. Per gran parte della fruizione, almeno sino al palesarsi della suddetta caduta (il finale è quanto di più improbabile possa accadere), lo spettatore è infatti occupato a capire se l’approccio alla materia da parte del regista e sceneggiatore John Portanova sia volutamente posticcio e tendente all’horror di serie Z, con una strizzatina d’occhio al demenziale, o al contrario il tono sia convintamente serio. Con la prima ipotesi, forse e sottolineiamo forse, l’operazione potrebbe in qualche modo trovare un salvagente al quale aggrapparsi; diversamente, con la seconda, la situazione si aggraverebbe e di molto, sino al collasso. Quest’ultima si fa sempre più largo quando ci si inizia a rendere conto dopo poco minuti che di umorismo, di qualsiasi colore e forma esso sia, non vi è alcuna traccia. A quel punto, il già fragile castello drammaturgico e narrativo eretto dal cineasta statunitense finisce con il crollare pezzo dopo pezzo. E se non fosse per una quindicina di minuti di sano divertimento splatter e citazionista, che corrisponde alla resistenza armata in casa dall’attacco dei Bigfoot inferociti, il giudizio complessivo, per quanto ci riguarda, sarebbe stato ancora più impietoso. Ma riavvolgiamo il nastro del film per andare a vedere ai raggi x cosa non va nell’ingranaggio di questa opera prima a stelle e strisce, vincitrice del premio della giuria al Toronto Independent Film Festival 2015.
Portanova ci porta diritti al seguito di un padre e un figlio che, dopo aver perso la loro casa per una devastante tragedia, sono costretti a trasferirsi nella vecchia baita di famiglia. Nessuno dei due si adatta bene al nuovo mondo in cui si ritrovano a vivere. I tentativi del figlio di relazionarsi con il padre sono complicati dall’arrivo di due vecchi amici per un weekend di caccia. Questa gita nel bosco porterà alla luce sentimenti nascosti di colpa e tradimento, ma anche una tribù di uomini delle nevi che sono determinati a proteggere la proprio terra.
Basta dare una sbirciata alla sinossi per intuire sin da subito in quale ginepraio si sia andato a cacciare il regista americano e con lui la storia che ha deciso di portare sul grande schermo. Nella sceneggiatura di Valley of the Sasquatch si viene a creare un vero e proprio cortocircuito, causato da uno scontro frontale tra due anime ben distinte che nel racconto non riescono proprio a coesistere. Portanova focalizza gran parte della storia sul conflitto generazionale e familiare, creando una base drammatica abbastanza corposa, per poi ricordarsi quasi un’ora dopo, fatta eccezione per l’incipit, che in realtà dovremmo trovarci al cospetto di un horror, tra l’altro classico e costruito con e su tutta una serie di stereotipi del genere di riferimento, a cominciare dal bosco infestato di mostri (in questo caso i Bigfoot), per finire con la casetta piantata nel bel mezzo del nulla. Dopo aver accantonato qualsiasi velleità sul piano dell’originalità e tediato lo spettatore con il reminder del passato dei personaggi, tra l’altro poco interessante e confuso, girando a vuoto con inutili digressioni e scontri dialetti tra padre e figlio, il regista prova a risollevare le sorti del suo film d’esordio con qualche scena dal retrogusto shocker o splatter (effetti visivi di quarta categoria), ma la sostanza non cambia e di conseguenza nemmeno l’esito. Per coloro che si erano illusi di imbattersi in un nuovo Troll Hunter, ma senza la componente found footage ovviamente, devono alzare bandiera bianca, perché l’originalissimo e spassoso mockumentary realizzato sei anni fa da André Øvredal è lontano anni luce.
Francesco Del Grosso