L’elogio della follia di Cozzi
La platea del 36° Fantafestival era pronta a intervenire, coi propri tiratori scelti, per freddare le velleità del redivivo Luigi Cozzi in un tripudio di frizzi e lazzi, come da consolidata tradizione della kermesse capitolina. Del resto, complici alcune precedenti presentazioni del film, temuto anche per la durata quantificabile in circa due ore, era trapelata l’idea che Blood on Méliès’ Moon sfidasse il buon senso e il buon gusto cinematografico in una misura non sopportabile, se non con l’ausilio dei consueti sberleffi a scena aperta. Da molti ci si aspettava, insomma, che il ritorno di questo pittoresco e scanzonato artigiano dell’italico cinema di genere coincidesse con un “trashone” a senso unico, tale da rinverdire i fasti di Fatal Frames – Fotogrammi mortali (1997) e L’eremita (2013), solo per citare le famigerate opere di un Al Festa divenuto a sua volta garanzia di “scult” assoluti. E invece no. Luigi Cozzi non ha fatto nella circostanza la fine di Al Festa, perché pur infarcendo il suo film di scelte narrative ed estetiche quantomeno azzardate (volendo usare un eufemismo) ha messo in gioco un’arma potente: l’autoironia.
Ed è così che il pubblico del Fantafestival, pur non trattenendo qualche sonora risata e commenti ad hoc in occasione dei più improbabili primi piani o di dialoghi da “mistery all’amatriciana”, si è ritrovato incredibilmente a ridere più con l’autore, che alle sue spalle. Del resto Blood on Méliès’ Moon è un’operazione cinematografica assolutamente fuori standard. Un po’ horror soprannaturale, un po’ fumetto underground, un po’ mockumentary, un po’ bignamino di storia del cinema, un po’ feuilleton, un po’ science fiction dai contorni apocalittici, un po’ dark comedy, un po’ filmino delle vacanze. Nel calderone Luigi Cozzi ha buttato praticamente di tutto, ma è lo spirito con cui lo ha fatto ad averci conquistati.
Atteggiandosi quasi a Forrest Gump capitolino tanto svampito quanto legato da un cordone ombelicale strettissimo al suo negozietto/museo Profondo Rosso, dove è girata una parte rilevante del film, il nostro Cozzi si pone al centro della scena quale protagonista di una fantasmagorica e sgangherata detection, dal cui esito potrebbe dipendere addirittura il destino del nostro universo!
Preso all’amo da una fusione pressoché unica di ironia e megalomania, lo spettatore viene invitato a pedinare il Cozzi stralunato, involontario eroe in una folle avventura, nella quale convergono alchimisti del passato, libri dai poteri magici, teorie sugli universi paralleli, (a un certo punto vi è una carrellata di romanzi Urania & affini, con Assurdo universo di Fredric Brown in primo piano, che strappa quasi commozione), nonché ricerche nell’ambito del cinema delle origini, che per il regista diventano il pretesto di infinite digressioni cinefile. Al punto che, in certi momenti, sembra di stare non più all’interno di un lungometraggio di finzione, ma tra gli extra delle collane di DVD che lo stesso Cozzi è solito curare…
L’anarchia delle immagini regna sovrana. E in questo, come a mettere insieme l’alfa e l’omega di colui che sarebbe poi diventato l’artefice di sfacciatissimi e spesso grezzi B-Movies, sembra quasi di essere tornati alle velleità sperimentali che ne avevano caratterizzato l’esordio, Il tunnel sotto il mondo, misconosciuta e sorprendente pellicola datata 1969 la cui riscoperta, al sottoscritto, aveva ispirato tali pensieri: “Viaggio lisergico in un immaginario e in un modo di fare cinema che appaiono estremamente remoti nel tempo, il lungometraggio d’esordio di Luigi Cozzi può risultare oltremodo spiazzante per chi ha familiarità con i vari L’assassino è costretto ad uccidere ancora, Starcrash, Contamination, Hercules, che pur nella loro diversità rappresentano altrettante declinazioni di un cinema dalle forti ambizioni popolari. Ispirato all’omonimo racconto di fantascienza scritto da Frederik Pohl nel 1955, Il tunnel sotto il mondo è invece la summa delle libertà narrative e di montaggio, del taglio para-godardiano, dell’approccio critico/satirico alla società dei consumi e di una parafrasi decisamente sfrontata, per non dire straniante, del cinema di genere, così in voga nelle produzioni cinematografiche di quegli anni.”
Ecco, scomodare questo impegnativo debutto può giovare solo in parte, al paragone da noi abbozzato: senza dubbio in Blood on Méliès’ Moon vi è un taglio decisamente più raffazzonato, qualche ripresa al limite dell’amatorialità, nessi logici del tutto sconclusionati, missaggio sonoro lasciato spesso all’improvvisazione, filmati di varia provenienza (da un incontro del sodale Dario Argento col pubblico a una luculliana cena da Lamberto Bava) assemblati nel racconto in modo alquanto arbitrario. Ma come in quel lontano esordio si respira comunque aria di libertà, desiderio di giocare con la macchina cinema senza freni inibitori. Quando poi l’autoironia viene a oliare il meccanismo tale approccio ludico contagia anche lo spettatore: come non citare l’incubo simil-morettiano in cui l’apparizione di un giovane critico spaventa l’autore, che prima appare sgomento e poi si compiace apertamente del titolo di “Ed Wood de noantri”? Ma l’apice viene raggiunto quando lo stesso Cozzi, assieme a una sorta di “virgilio” raccattato lungo il percorso, riesce a entrare fisicamente e con tanto di razzo puntato verso la luna nel mondo fantastico di Méliès: lì la follia di questo strambo progetto cinematografico sfiora una delle sue vette, lasciandoci sulle labbra un sorriso complice.
Stefano Coccia