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Tragedy at Rodger’s Bay

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VOTO: 7.5

Sangue ghiacciato

Sangue, misteriose morti e distese gelide nel mezzo del nulla; sono questi gli ingredienti e l’ambientazione inospitale che alimentano e fanno da sfondo a Tragedy at Rodger’s Bay, l’opera prima di Philipp Abryutin che, dopo aver riscosso riconoscimenti e consensi nel circuito festivaliero internazionale, approda in anteprima italiana nel concorso della 14esima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest.
Pronti via ci troviamo catapultati nell’Unione Sovietica del1935. L’ispettore dell’NSRA Nikolay Zherdev ha ricevuto l’ordine di partire per la stazione di ricerca polare sull’isola di Wrangel per indagare sulla morte, apparentemente accidentale, del dottor Wolfson. Già dal suo arrivo in Artico, Zherdev capisce che il suo viaggio non sarà facile: il forte antisemitismo e i molti indizi che raccoglie all’interno della stazione di ricerca sono chiari segnali che il dottor Wolfson è stato ucciso e che la sua morte è legata a quella di alcuni Inuit e Chukchy della popolazione locale. Disobbedendo a tutti gli ordini superiori e rischiando persino la sua carriera, Zherdev inizia ad investigare. Grazie all’aiuto della popolazione Inuit riuscirà a salvare la moglie del dottor Wolfson, ma metterà in grave pericolo la sua vita.
Come spesso accade quando ci si trova a fare i conti con una storia come questa, la speranza che si tratti del frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno è la sola scialuppa di salvataggio alla quale ci si può provare ad aggrappare. Ma nel caso di Tragedy at Rodger’s Bay la speranza viene presto meno, quando già dopo pochi secondi dall’inizio della visione bisogna prendere atto che quella narrata nei minuti seguenti è, purtroppo, una storia vera. Di conseguenza, l’approccio del fruitore alla materia drammaturgica, narrativa e alle one line dei personaggi, viene inevitabilmente influenzata da una simile informazione. Il grado di attenzione e di rispetto nei confronti di quanto scorre davanti ai nostri occhi aumenta in maniera esponenziale, caricando il tutto di una serie di responsabilità, soprattutto quando si viene a conoscenza degli ennesimi tragici eventi vergognosamente sepolti e celati dalla Storia e da coloro che la scrivono con il rosso sangue. Quella raccontata da Abryutin è, infatti, prima di un’intricata cronaca delle fasi più o meno complesse di un’indagine, è un riflettore che si accende a decenni di distanza su un brutale e lento sterminio perpetrato dalle autorità sovietiche dell’epoca ai danni di una popolazione indigena, decimata giorno dopo giorno dal freddo e dalla mancanza di cibo. È una tragedia nella tragedia, che il regista ha avuto il coraggio e il merito di trasformare nel tessuto narrativo dello script e poi nella sua trasposizione. Ma per farlo ha dovuto per forza di cose usare gli strumenti e i codici del cinema di genere, quanto basta per portare all’attenzione di più persone possibili questa ulteriore macchia indelebile impressa nel passato.
Il cineasta russo firma un dramma storico che indossa a fasi alterne le vesti del thriller e del poliziesco, calandosi in una realtà che non è quella metropolitana, bensì quella coperta dal ghiaccio perenne e battuta da spietate tempeste di neve. Proprio questa inusuale ambientazione per i generi in questione rappresenta un primo motivo di interesse nei confronti di un film che consigliamo caldamente di non abbandonare sino all’ultimo fotogramma utile, perché da quello dipende il destino dell’intera opera e la sua riuscita. Ovviamente non ve lo riveleremo, ma si tratta di un autentico fulmine a ciel sereno che si abbatte sullo schermo quando i giochi sembrano ormai fatti, con lo spettatore convinto, almeno quanto l’ispettore protagonista, di avere messo definitivamente le mani sulla verità. E invece, quella verità così faticosamente raggiunta dopo novanta minuti di timeline è solo una minima parte, perché quella definitiva è davvero spiazzante. Sta in questo colpo da bigliardo in zona cesarini lo snodo cruciale, ossia quel fattore X in grado di cambiare le sorti di una pellicola che, altrimenti, sarebbe stata comunque ben al di sopra della sufficienza grazie a una serie di resistenti pilastri capaci di mantenere saldamente in piedi l’architettura sulla quale si poggia la storia e i personaggi che la animano. Quest’ultimi, con il rispettivo camaleontico disegno ben studiato, sono l’altro punto di forza di Tragedy at Rodger’s Bay, insieme alla messa in quadro, impreziosita da spettacolari immagini aeree che restituiscono i selvaggi panorami dell’Artico.

Francesco Del Grosso

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