Un viaggio da incubo
Un crimine orribile si è verificato la scorsa primavera: a seguito di una violenta lite una donna è stata uccisa dal marito, che ne ha smembrato il corpo e lo ha nascosto nel bagagliaio della loro auto. Si tratta della stessa auto che Andrey acquista a buon mercato per partire con la moglie Olya e la loro figlia. Durante il viaggio però, Olya inizia ad udire rumori strani e avverte che la vettura le trasmette una strana sensazione di inquietudine. Andrey è particolarmente irritato dalle convinzioni assurde della moglie e inizia a discutere con lei. Nel frattempo, sul sedile posteriore, la bambina inizia una conversazione con una donna invisibile che non ama affatto la discussione che sta avvenendo fra i genitori della piccola.
Di notizie riguardanti femminicidi e omicidi a sfondo familiare nella vita reale se ne sentono un giorno si e l’altro pure, per cui la possibilità che la platea di turno possa vivere e affrontare parte dell’esperienza filmica di un’opera come Paranormal Drive non con il giusto distacco, è un pericolo piuttosto elevato. Ma credeteci, nonostante gli eventi riportati nella sinossi e il genere di film che li accoglie, ossia l’horror paranormale, potete davvero dormire sonni tranquilli, poiché i tremendi e inquietanti fatti di sangue qui narrati, compreso l’efferato delitto con il quale si apre la pellicola di Oleg Asadulin, non sono altro che il frutto germogliato sul grande schermo dell’immaginazione del regista stesso e del co-sceneggiatore Ivan Kapitov.
Che poi si fa presto a parlare di immaginazione, perché nel caso della pellicola diretta dal regista russo, presentata in anteprima italiana nel concorso della 14esima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, sarebbe decisamente più corretto parlare di immaginario, per la precisione quello sterminato dal quale Asadulin e il compagno di scrittura hanno attinto a piene mani per assemblare uno script che assomiglia a un mosaico composto da tasselli già visti. Ai codici e agli elementi ricorrenti dell’horror dalle venature paranormali, che fanno capo soprattutto al prolifico filone della ghost story, i responsabili della fase di scrittura hanno aggiunto un abbondante dosaggio di citazionismo più o meno dichiarato, che non si fa fatica a ricondurre per un motivo e per un altro a Duel o a The Mangler. Ed proprio questi due esempi di horror che il regista russo saccheggia senza esitazione alcuna, prendendone intere sequenze da utilizzare per mettere insieme lo straccio di plot che sostiene piuttosto debolmente la struttura drammaturgica. Per carità, ben venga il citazionismo, ma provare quanto meno a rileggere o rielaborare quanto preso in prestito in una chiave diversa e personale non ci sembra uno sforzo poi così titanico. Ma non è questo il caso, con Asadulin che sin dalla fase di scrittura dimostra di avere a cuore solo l’intrattenimento e nulla di più, con la pigrizia drammaturgica che prende il sopravvento, vanificando anche quei vani tentativi di mescolare le carte con i colpi di scena disseminati qua e là nella timeline.
Il risultato non può che essere un prodotto orrorifico senza alcuna pretesa autoriale, che non insegue ne percorre le strade dell’originalità, limitandosi alla riproduzione e al semplice omaggio dichiarato al cult di turno. E non è un caso, allora, che gli addetti ai lavori che si sono confrontati prima di noi con Paranormal Drive lo abbiamo definito – e non poteva essere altrimenti visti i non pochi ingredienti in comune – la versione post-moderna del film di Tobe Hooper del 1995, a sua volta trasposizione delle pagine del racconto “Il compressore” di Stephen King. Ovviamente il paragone non regge, perché il divario con The Mangler è abissale, soprattutto sul piano della costruzione della tensione e dei colpi bassi sferrati allo spettatore. Qui la paura, la suspense e la morte scorrono su km di lingue d’asfalto, ma raggiungono l’esito desiderato solo in rarissime occasioni, come ad esempio nella scena della sparizione della figlia dei due protagonista nella stazione di servizio, oppure in quella della fuga dai cacciatori.
Constatata la siccità drammaturgica e la scarsa propensione all’originalità nello sviluppo delle situazioni e dei personaggi, anch’essi schematici e stereotipati, l’unico motivo di interesse degno di nota a questo punto non resta che la confezione. Asadulin, con la complicità di una discreta fotografia e di effetti speciali di buona fattura, dimostra di saperci fare con la macchina da presa, dando origine a un involucro che si lascia guardare con piacere, anche se a conti fatti non è sufficiente a distrarre il pubblico dalla striminzita e avara scrittura.
Francesco Del Grosso