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Three Kilometres to the End of the World

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VOTO: 9

L’insabbiamento

Purtroppo da oltreoceano per Three Kilometres to the End of the World non sono giunte buone notizie. Mentre era in programmazione alla 36esima edizione del Trieste Film Festival, il lungometraggio di Emanuel Pârvu restava fuori dalla cinquina dei candidati all’Oscar per il miglior film internazionale, per il quale era stato scelto in rappresentanza della Romania. Del resto, la concorrenza davvero spietata riducevano le possibilità di una nomination già in partenza. L’esclusione però non cancella in nessun modo quelli che sono i meriti a un’opera che noi e la platea della kermesse giuliana, laddove è stata presentata in concorso dopo il debutto nella prestigiosa competizione del 77° Festival di Cannes, abbiamo potuto apprezzare. Meriti che anche il restante pubblico italiano potrà constatare con i propri occhi quando il film uscirà nelle sale nostrane con Academy Two.
Cominciamo con il sottolineare le indiscutibili qualità della scrittura della terza fatica dietro la macchina da presa del cineasta di Bucarest, sceneggiata a quattro mani con Miruna Berescu. La sceneggiatura molto meticolosa, scorrevole e solida dal punto di vista della costruzione narrativa e drammaturgica, oltre che dei personaggi principali e secondari, ruota intorno e si sviluppa intorno a un tema centrale nella cinematografia rumena, ossia quello del dilemma morale. Da qui nasce e prende vita una storia che ci porta diritti nel sud del Paese, in una remota area naturale protetta sul Delta del Danubio situata a tre chilometri dalla terraferma (distanza alla quale ga riferimento il titolo) chiamata Sfântu Gheorghe, dove sorge il villaggio natale del protagonista che farà da cornice alla vicenda. Ci ritroviamo al seguito di un adolescente alla scoperta di se stesso di nome Adil costretto a scontrarsi ed entrare suo malgrado in rotta di collisione con i valori tradizionali sostenuti dai genitori e dalla comunità conservatrice nella quale è cresciuto. Questo pezzettino di angolo di Paradiso terrestre nasconde invece sacche persistenti di ignoranza e pregiudizio nei confronti di tutto ciò che secondo la forma mentis locale interferisce con la sua presunta purezza, a cominciare dalla libertà sessuale. La bellezza selvaggia e incontaminata del luogo fa dunque da contrappunto alla bruttura e all’assurdità degli eventi drammatici e scioccanti che si verificano nel corso della timeline a partire dalla brutale aggressione omofoba della quale è vittima e che stravolgerà per sempre la sua esistenza. Si innesca una reazione a catena che porterà i genitori a non lo guardarlo più come prima e l’apparente tranquillità del villaggio a incrinarsi e venire velocemente meno.
Ma quello che si materializza sullo schermo va ben oltre la sola denuncia dell’omofobia, che resta comunque uno degli aspetti più sconvolgenti dell’opera e che davanti a certi manifestazioni, su tutte l’esorcismo, lascia attoniti. In tal senso, il film non fa sconti, con tutto ciò che avviene dopo l’aggressione notturna per strada ai danni di Adil, affidata al fuoricampo, che rincara la dose, scatenando nel fruitore di turno una gamma di emozioni negative e di sdegno che si amplificano con lo scorrere dei minuti. Three Kilometres to the End of the World mette a nudo, dipingendolo con mano ferma e pennellate decise, il quadro di una comunità fondata do ut des e su una cultura patriarcale profonda e tossica. L’unica autorità riconosciuta è quella religiosa, poiché qui tutti si sentono al di sopra della legge, con chi dovrebbe preservarla e farla rispettare che è parte integrante di un sistema corrotto, retrogrado e barricato in se stesso e nelle proprie convinzioni.
Pârvu traspone tale ingarbugliata matassa con una regia fatta di movimenti lineari ed eleganti che si alternano a quadri fissi la cui composizione e dinamica interna viene esaltata dall’uso insistente e metodico di lenti grandangolari. Il tutto all’insegna di un rigore e di un’asciuttezza grammaticale che si mette al completo servizio della storia e soprattutto dei personaggi, lasciando il palcoscenico alle efficaci e potenti performance di tutti gli attori coinvolti. Le interpretazioni rappresentano l’altro valore aggiunto di un film che lascia il segno e non può lasciare indifferenti. Il fatto che il regista sia esso stesso un attore ha permesso ai suoi colleghi di esprimersi al meglio e al risultato finale di godere del loro contributo artistico alla causa.

Francesco Del Grosso

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