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The Wall of Shadows

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VOTO: 7.5

La montagna proibita

Quando una famiglia di Sherpa viene avvicinata da un gruppo di scalatori, per accompagnarli in un trekking fino alla parete est del Kumbhakarna in Nepal, mai conquistata, si trova di fronte a un dilemma. La vetta, considerata più impegnativa del Monte Everest, nella religione locale del Kirant è considerata una montagna sacra che non deve essere scalata. Il padre vuole guadagnare con la spedizione il denaro necessario all’educazione del figlio. La madre è contraria alla scalata, ma alla fine accetta di guidare i tre stranieri sulla montagna, per rendere possibile il sogno del figlio di diventare medico. La regista Eliza Kubarska segue la spedizione e mostra come la famiglia faccia fronte alle condizioni estreme e al proprio credo religioso, per rendere possibile la salita.
Per sapere se gli dei del Kumbhakarna perdoneranno gli Sherpa per la loro insolenza bisogna vedere The Wall of Shadows, il documentario della regista e produttrice polacca, presentato in concorso alla 69° edizione del Trento Film Festival, laddove nel 2012 l’autrice era stata stata membro della giuria internazionale. Un ritorno in altra veste alla kermesse trentina per la Kubarska con un film che pone l’accento sulla dimensione spirituale della natura e dell’ambiente, chiamando in causa un’antica leggenda popolare locale. Amante della montagna e viaggiatrice, ha partecipato e filmato spedizioni esplorative in Groenlandia, Pakistan, Messico, Borneo e Vietnam.
Con la sua ultima fatica dietro la macchina da presa, distribuita in Italia da Mescalito Film, ci porta ai piedi e sulla vetta più alta dell’Everest per quello che all’anagrafe si presenta come un documentario, ma che dietro sembra avere un lavoro di scrittura. Una scrittura che non vuole alterare o manipolare la sacralità del vero e il corso degli eventi, ma dare a essi una direzione e un ordine al fine di creare un’architettura sulla quale poggiare le basi del racconto. Il ché ci riporta agli albori del cinema del reale e al modus operandi di Robert J. Flaherty di costruire un impianto drammaturgico e innestarlo all’interno di un documentario come in Nanuk l’esquimese, ma senza quelle distorsioni della realtà delle vite dei suoi soggetti che caratterizzarono la pellicola del 1922. La regista polacca non interviene mai in tal senso, restituendo sullo schermo un dramma intenso che potrebbe trasformarsi, e per fortuna non lo fa, in una tragedia, l’ennesima consumata su quelle vette. Nel mezzo contiene un romanzo di formazione, quello di un ragazzo che vorrebbe staccarsi dalla tradizione della famiglia e raggiungere l’emancipazione per studiare, ma anche l’opportunità di raccontare e soprattutto mostrare la vita e le dure condizioni di lavoro degli Sherpa. Linee che coesistono e stratificano la timeline di un’opera che offre allo spettatore un ventaglio cangiante di emozioni e una galleria di immagini mozzafiato catturate con grande coraggio nel maestoso mondo alpino.

Francesco Del Grosso

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