Il ragno in bagno
Quello che conta maggiormente, una volta addentratisi nei territori accidentati del thriller psicologico, è l’atmosfera di palpabile minaccia. Molto più della nuda evoluzione narrativa. Lo sapevano illustri scrittori come Henry James – dal quale racconto breve “The Way It Come” il lungometraggio The Spellbound è tratto – e ne sono perfettamente consapevoli vecchie volpi del cinema francese come il veterano Pascal Bonitzer (classe 1946), capace di mettere in scena una “storia di fantasmi” in apparenza evanescente ma in realtà capace di fotografare efficacemente la percezione di vacuità esistenziale che affligge, oggi, moltissime persone.
La giovane Coline (la figlia d’arte Sara Giradeau, figlia del regista Bernard) è una ragazza nevrotica dall’aspetto androgino molto incerta sulla strada da intraprendere, sia a livello di orientamento sessuale che professionale. Vive a Parigi, soffre di una forma acuta di aracnofobia (paura incontrollabile dei ragni), ha una bellissima amica intima di nome Azar, illustratrice per cui posa nuda, e lavora in prova presso una rivista che si occupa di raccontare storie molto particolari. Una notte Azar chiama Coline in suo soccorso, affermando di aver avuto un’improvvisa visione di suo padre, peraltro residente in Spagna, poi rapidamente svanito. Pochi minuti dopo, la spaventatissima Azar riceve una telefonata che le annuncia la dipartita del genitore. Trascorre del tempo e la direttrice della rivista propone a Coline una vicenda simile: un uomo, Simon (Nicolas Duvauchelle), residente a Biarritz, sui Pirenei al confine spagnolo, dichiara di aver avuto ripetute visioni della madre, in seguito defunta. Un’intervista di approfondimento dei fatti si trasforma, per Coline, in un rapporto sentimentale assai ambiguo con l’enigmatico Simon.
In The Spellbound – titolo internazionale che traduce piuttosto fedelmente l’originale Les envoûtés, cioè Gli stregati, non risparmiando pertinenti echi hitchcockiani – Bonitzer lascia molto dell’intreccio alla singola interpretazione del fruitore. I personaggi principali risultano indifesi di fronte alla complessità di un rapporto sentimentale, in un’opera dove la suddivisione canonica di categorie sessuali come etero ed omo viene progressivamente a cadere. La domanda da porsi è sempre quella sull’identità. The Spellbound mette in scena un percorso di ricerca interiore riguardante, in primo luogo, la difficoltà di comprendere fino in fondo se stessi, per poi raddoppiare le problematiche allorquando si tratta di rapportarsi intimamente con qualcun altro. La cui vicinanza è appunto vista più alla stregua di una minaccia che come fonte di benessere e/o semplice piacere fisico. La via d’uscita può essere solo la morte, intesa come fine effettiva oppure morale, nella scelta di rinunciare a vivere rinchiudendosi in una solitudine di pura difesa esistenziale.
Per apprezzare un’opera come The Spellbound è dunque necessaria una certa predisposizione a lasciarsi andare alla deriva, al pari dei personaggi. Bonitzer – anche cosceneggiatore assieme ad Agnès de Sacy – gioca sin troppo scientemente con tutti gli stereotipi del genere di riferimento, non tralasciando nemmeno una certa ironia che scorre sotto la traccia drammatica del lungometraggio. Eppure l’incanto del titolo viene trasmesso anche al di là dello schermo, fornendo una precisa ragion d’essere a The Spellbound, ipnotico esercizio di stile che merita appieno la sua presenza ne Concorso della trentesima edizione del Noir in Festival, se non altro per il suo circostanziato e motivato pessimismo di fondo. Prima regola da rispettare per un noir che, sia pure sotto altre e differenti vesti, ambisca a definirsi tale.
Daniele De Angelis