Siamo tutto ciò che ci resta
È innegabile che uno degli elementi di attrazione di The Song of Names, oltre alla possibilità di ascoltare le note di una nuova colonna sonora firmata da Howard Shore e quella di assistere alla trasposizione dell’omonimo toccante romanzo di Norman Lebrecht, sia l’occasione di vedere duettare degli attori del calibro di Tim Roth e Clive Owen. La loro presenza nel cast è sicuramente un valore aggiunto, utile alla causa recitativa ma anche in termini produttivi e distributivi (in Italia uscirà con Koch Media e presentato in anteprima italiana nella sezione “Panorama Internazionale” dell’undicesima edizione del Bif&st) per calamitare potenziali spettatori in sala, ma a conti fatti la presenza sullo schermo è decisamente limitata. Minuti e numero di scene alla mano, il rispettivo impegno sul set è stato piuttosto ridotto e nel caso di Owen è quantificabile persino con il contagocce. Della serie poco ma buono. In effetti per vederli in azione entrambi bisognerà attendere ben oltre il giro di boa dell’ora. Questo per dire che l’attenzione in realtà andrebbe rivolta alle performance di coloro che sono stati chiamati a vestire i panni dei due protagonisti dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di François Girard, quando l’anagrafe di questi riguarda la fascia d’età che va dai 9 ai 17 anni: per Martin, Misha Handley e Gerran Howell, mentre per Dovidl, Luke Doyle e Jonah Hauer-King.
Sono loro a rubare la scena ai più quotati colleghi e sono sempre loro a regalare alla platea di turno le scene più emozionanti del film (due su tutte il mini concerto nel bunker durante il raid aereo e il canto del nome nella sinagoga clandestina che permette a Dovidl di scoprire il destino della sua famiglia). Di conseguenza è sul quartetto dei giovani interpreti che si deve concentrare la lente d’ingrandimento, così da apprezzarne il processo di immedesimazione che li ha portati a diventare il tessuto umano di una storia che parla di legami affettivi indissolubili e ovviamente di memoria. Una memoria dolorosa e mai rimossa, sanguinante come una ferita ancora aperta, che è il tema centrale di The Song of Names e delle migliaia di storie come quella raccontata dal cineasta canadese. Qui Girard parte dalle pagine di Lebrecht per catapultare lo spettatore nell’Europa dei primi vagiti della Seconda Guerra Mondiale, al seguito del piccolo Martin, un adolescente che si affeziona al nuovo fratello Dovidl, coetaneo e violinista prodigio, ebreo polacco rifugiatosi a Londra. Ma Dovidl, all’età di 21 anni, scompare senza lasciare traccia alla vigilia del suo primo concerto da solista. Inizia così l’odissea di Martin alla ricerca del fratello perduto, con rivelazioni sorprendenti per entrambi.
Girard racconta attraverso un intreccio spazio-temporale un storia d’amicizia, palleggiando tra presente e passato. Il risultato è un period-drama che pur ripercorrendo la tragedia immane dell’Olocausto, trova comunque una strada personale per rievocarlo. Privato e dramma collettivo convergono senza che l’uno fagociti l’altro come accade il più delle volte nelle migliaia di pellicole sul tema. Modus operandi, questo, che l’autore ha già adottato in precedenza con Hochelaga e Seta, ma con un esito in The Song of Names strutturalmente più solido. Merito non solo di una riscrittura che ha saputo cogliere l’essenza della matrice letteraria, ma anche dell’elemento musicale, qui assolutamente centrale nel percorso narrativo. Elemento carissimo al cineasta canadese e ricorrente nella sua filmografia (L’ottava nota – Boychoir, Il violino rosso e Trentadue piccoli film su Glenn Gould), che probabilmente lo ha fatto navigare in acque sicure.
Francesco Del Grosso