Il male esiste solo nella seconda parte
Ogni film di Mohammad Rasoulof si accompagna a un duello con le autorità del regime teocratico di Teheran. Non poteva non esserlo quindi anche per la sua ultima opera, The Seed of the Sacred Fig, presentato in concorso a Cannes 2024, che ha comportato la rocambolesca fuga del regista per raggiungere l’Europa e approdare sulla Croisette, lasciando senza permesso il proprio paese nel quale era confinato per un provvedimento che risale al 2017. Il regista ha scontato il carcere dal luglio 2022 al febbraio 2023 ed è stato rilasciato in anticipo grazie all’amnistia generale seguita all’ondata di proteste. Ma poco dopo il suo rilascio, gli è stato notificato un nuovo procedimento aperto contro di lui, per il suo film Il male non esiste, vincitore a Berlino in sua assenza. Rimanendo in ambito filmico, The Seed of the Sacred Fig è la spiegazione delle tensioni che da tempo a questa parte, perpetuamente si inaspriscono e portano i manifestanti in piazza per proteste poi molto sbrigativamente represse. Spiegazione che il regista incarna in un conflitto intergenerazionale, tra un uomo stimato che serve le istituzioni del proprio paese e le sue due figlie che invece ambiscono a quella libertà che è concessa ai giovani di tutto il mondo, tra chi fa parte della generazione che ha partecipato o anche è stato testimone simpatizzante della rivoluzione del 1979, oppure appartiene alla generazione successiva che comunque ha mantenuto ancora forte quello spirito ideologico, e chi quella rivoluzione l’ha solo sentita raccontare, sperimentando le rigidità dei costumi di quel regime che si è instaurato al posto dello scià. Iman è un uomo di legge di mezza età, che viene promosso giudice delle corti rivoluzionarie. Per lui, uomo delle istituzioni, si tratta di un importante riconoscimento, ma è consapevole, parlandone col collega, di quanto quegli organismi giudiziari abbiano perso la loro autorità popolare, e di come quel lavoro comporterà il rischio di mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi famigliari. Per questo fa un discorso alle figlie raccomandando loro una condotta irreprensibile nonché l’allontanamento dalla vita nei social media. Già qui Rasoulof ha messo un po’ di carte in tavola. Vediamo la questione dal punto di vista dell’uomo fedele al regime, in cui crede. E la minaccia che percepisce non è altro che quella delle manifestazioni nelle piazze, di una perdita drammatica del consenso del regime, ovvero cose al nostro modo di vedere assolutamente positive, ma non al protagonista. Il male non esiste ma si moltiplica e nasconde dietro chi lo cerca, si sfrange in tante sfaccettature. Va ovviamente valutato anche il tenore di vita agiato che ne conseguirebbe, che permetterebbe per esempio alle figlie di non dormire più in una stanza unica. E qui torna il Rasoulof di Il male non esiste dove aveva rappresentato coi letti a castello delle caserme, quel clima al tempo stesso militaresco e di prigionia, come una cappa che avvolge il popolo iraniano.
Iman è un uomo irreprensibile e si rifiuta, o almeno tenta, di firmare un fascicolo il cui esito, che comporta delle condanne a morte, è stato deciso a priori, senza che sia stata fatta davvero un’istruttoria. E qui, ancora nell’istanza “il male non esiste”, Rasoulof inserisce un importante distinguo. Non solo la repubblica islamica è un’entità anacronistica basata su un’ideologia iniqua, ma è anche corrotta. Paradossalmente possono esserci persone oneste e in buona fede che ne vogliano applicare correttamente i principi, come è il caso appunto di Iman. Ma l’equilibrio dura poco, le manifestazioni di piazza dei giovani si moltiplicano per tutto il paese, e irrompono anche nel film, nel loro status di verità garantito dalle immagini di formato verticale dei telefonini. Le donne che si tolgono il velo in segno di sfida, che sfilano nelle strade in manifestazioni che sono represse nel sangue dalle forze dell’ordine, con tanti morti. Figurativamente questa irruzione segna il film nella scena, lunga, in cui la madre toglie a uno a uno i pallini insanguinati che hanno deturpato il volto della ragazza, amica delle figlie, cui hanno offerto rifugio in casa. L’estirpazione lenta e certosina del male che si frappone all’immagine della disseminazione dei semi di fico, metafora di saggezza. E qui il confronto tra padre e figlie scivola nel manicheismo. L’uomo tira fuori le teorie trite e ritrite della cospirazione mondiale contro l’Iran, il lavaggio del cervello dei giovani del paese a opera della propaganda dei paesi occidentali.
In The Seed of the Sacred Fig tornano vari elementi cari al regista. La fuga dalla città attraverso le highway urbane, il contrasto tra il mondo rurale e quello urbano rappresentato dalle tante conversazioni che si dipanano dentro automobili in corsa, reminiscenza di tanto cinema iraniano classico. I semi del fico ci portano in una dimensione diversa, a un cinema contemplativo che ancora in Iran ha radici antiche, guardando ad autori come Ceylan. Ma ogni abbozzo di cinema contemplativo serve a Rasoulof per dire che non esiste il cinema contemplavo e che comunque lui non può permetterselo, in nome del principio supremo di militanza che porta avanti. Nel passaggio però tra la prima e la seconda parte del film, Rasoulof si lascia andare alla rabbia, cadendo nel facile manicheismo, e perdendo tutto quel senso analitico che comunque apparteneva alle premesse. La pistola che già era enunciata all’inizio farà la sua parte portando il film nei territori di genere, del thriller, dei giorni di ordinaria follia. Comunque la pensiate, un impoverimento.
Giampiero Raganelli