Le due sepolture
Molto stuzzicante la premessa di partenza: uno dei fulcri del Dogma di vontrieriana memoria, Kristian Levring, si cimenta nella rilettura del genere americano per eccellenza, ovvero il western. Presentato, dopo il passaggio al Festival di Cannes nel 2014, nell’ambito del Nordic Film Fest (Roma, 16-19 aprile 2015, Casa del Cinema ad ingresso libero) – puntuale e circostanziata rassegna che fa annualmente il punto sul cinema scandinavo – The Salvation si rivela più un interessante esperimento che una vera e propria innovazione, al netto di tutte le difficoltà del caso, del genere suddetto. L’autorialità dell’operazione emerge più dalla confezione (assai suggestiva e molto “nordica” la fotografia di Jens Schlosser) che non dalla sceneggiatura – scritta dallo stesso Levring insieme al sodale di lungo corso del cinema di Susanne Bier, Anders Thomas Jensen – la quale si diverte a giocare con gli stereotipi classici del genere, pur non omettendo autentiche scudisciate ad un capitalismo allora agli albori ma già ampiamente deteriore. Dando qualche breve cenno di trama siamo infatti nel 1870 e due fratelli immigrati dalla Danimarca nel Nuovo Mondo qualche anno prima, attendono l’arrivo della moglie e del figlioletto di uno di loro. Un fortuito, pessimo incontro con due balordi, dopo essere finito nel sangue, innesterà però una catena di vendette che avrà termine solo nella rutilante, tradizionale, resa dei conti finale.
The Salvation ha comunque dalla sua un paio di elementi che ne contraddistinguono la positiva riuscita. In primo luogo una conoscenza totale ed esibita del genere di riferimento, cosa che permette a Levring di mantenere in equilibrio non precario il suo film tra la serie A di chi vuol imprimere una certa lettura politica alla materia e la serie B dell’ultra-citazionismo ad oltranza. Per attestare le ambizioni “alte” degli autori basterebbe osservare con attenzione l’ultimissima sequenza, allorquando il dolly – sollevandosi e allargando l’inquadratura – rivela il vero motivo all’origine di così tanta violenza: la recente scoperta del petrolio su scala industriale. Ma anche una gestione del potere fondata dalla parte burocratica (il sindaco interpretato dal redivivo Jonathan Pryce) sull’inganno ipocrita, mentre il potere economico (efficace il villain Jeffrey Dean Morgan) si basa su una violenza così esplicita, brutale e ragionata da ricordare quella nazista degli anni a venire. L’aspetto maggiormente evidente della vena citazionista va invece riscontrato nella stilizzazione dei personaggi. Oltre a quelli già menzionati, la maschera del protagonista Mads Mikkelsen non può non far venire alla mente, nella sua monolitica essenza, quella di uno dei tanti cavalieri solitari interpretati in carriera da Clint Eastwood; mentre Eva Green mimetizza la proprio stordente bellezza in un ruolo di muta vendicatrice, simbolo di un riscatto femminile assoluto e decisamente ante-litteram. Tutti pregi che vanno però anche ad evidenziare i limiti di The Salvation: i quali, in fondo, risiedono proprio in un’eccessiva preparazione a tavolino della trama, troppo evidentemente studiata per sperare di raggiungere quel tipo di epica capace di fare grande il western degli spazi sterminati e della solitudine umana.
A patto che lo si legga alla stregua di un passatempo di lusso, al tirar delle somme, The Salvation farà la sua bella figura, tra picchi drammatici e ironia tra le righe di un west nerissimo non similmente alla pece ma come, è proprio il caso di dire, il petrolio. Tuttavia, se ci si attendeva una vera e propria rinascita di una via europea – danese, nella fattispecie – al western americano, ebbene il rischio della delusione, almeno parziale, è abbastanza concreto.
Daniele De Angelis