Immortalità: un dramma che priva della propria umanità
L’eterna giovinezza, come numerosi esempi di letteratura classica e moderna confermano, è sempre stata narrata come la massima aspirazione umana: quel qualcosa che l’uomo non avrà mai, ma a cui ambirà sempre, angosciato dall’idea della propria finitezza, di cui rughe e capelli bianchi sono gli emblemi più manifesti.
In Adaline – L’eterna giovinezza, Lee Toland Krieger narra di un’immortalità come condizione estremamente drammatica, soprattutto quando il resto del mondo continua a mutare e il fermarsi del tempo, per una sola persona, diviene una vera e propria gabbia da cui occorre liberarsi.
Adaline è un’elegante donna nata i primi del Novecento che all’età di 29 anni rimane vittima di un incidente da cui si salva quasi per miracolo e che, per una particolare legge fisica che coinvolge i suoi tessuti, la rende immortale; in seguito all’episodio, la donna non invecchia più neanche di un anno e, sebbene inizialmente riesca a giustificare quest’anomalia usando la scusa di prodigiose creme contro le rughe, man mano che passano gli anni, è costretta a trovare un’altra soluzione, onde evitare di diventare una cavia da laboratorio oggetto di studi scientifici da parte di curiosi ricercatori.
La donna giunge, così, alla dolorosa scelta di una vita nomade, che la vedrà spostarsi ogni dieci anni da un posto all’altro del mondo, dove si creerà ogni volta una nuova identità, nuove abitudini, nuovi affetti, consapevole che sarà sempre una situazione transitoria, privandosi in questo modo della possibilità di affezionarsi realmente a qualcuno, poiché destinato a invecchiare accanto a lei, senza mai vedere, di rimando, una sola ruga solcare il suo volto.
Esattamente come farà sua figlia, l’unica persona al mondo con cui condivide questo tragico segreto. Ma, tra uno spostamento e l’altro, Adaline incontra il simpatico Ellis Jones, l’uomo che metterà a repentaglio il suo segreto. E i suoi sentimenti, rimasti congelati tanti anni prima insieme ai suoi tessuti.
Frutto del lavoro a 4 mani di J. Mills Goodloe e Salvador Paskowitz, la trama della pellicola, pur interessante per lo spunto che offre, di fatto fatica a decollare, sia per il suo dilungarsi in ridondanti digressioni pseudoscientifiche finalizzate a dare una giustificazione meno fiabesca possibile di ciò che accade ad Adaline, sia per il soffermarsi in modo troppo meticoloso sui vari contesti in cui la protagonista si ritrova. L’intento di sottolineare la contrapposizione tra l’immutabile Adaline e il mondo che muta intorno a lei anche negli eventi storici è chiaro, ma il rischio di calcare troppo la mano su questi elementi facendo perdere il filo del racconto non viene scampato del tutto.
Lacune, tuttavia, compensate da una fotografia decisamente di qualità e dalle doti interpretative degli attori: attraverso un magistrale lavoro di luci e colori, David Lanzenberg offre in modo lampante la diversità dei contesti in cui Adaline ricrea ogni volta la sua vita, non solo da un punto di vista spaziale, ma anche temporale; mentre la bella Blake Lively, divenuta famosa per la serie Gossip Girl, trasmette appieno la dignitosa sofferenza di una donna matura nell’animo, ma giovane nell’aspetto, rimasta vittima di una maledizione alternata a una raffinata freddezza con cui scansa il rischio di affezionarsi a qualcuno. Se poi alla brava protagonista si affianca l’interpretazione, magistrale come sempre, di Harrison Ford, ecco che le carenze della sceneggiature vengono ampiamente compensate.
Uno spunto di riflessione è offerto, infine, dall’accostamento tra affetti e finitezza e incapacità di amare e immortalità; come se ciò che ci rende veramente umani, non è tanto la mortalità, quanto la capacità di provare sentimenti profondi che ci spingono verso il rapporto con l’altro.
Ma, forse, è una riflessione troppo profonda per un film che rimane pur sempre nella categoria dell’intrattenimento.
Costanza Ognibeni