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The Open

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VOTO: 8

Resilienza tennistica

Sono estremamente varie le forme che il cinema post-apocalittico può assumere. Alcune più scontate, “alimentari”, giocate in primo luogo sulla morbosità e sull’appeal sensazionalistico degli scenari descritti. In altri casi, fortunatamente, la metafora si irrobustisce, le soluzioni narrative acquistano una consistenza diversa, la stessa crudezza dell’ambientazione viene a sposarsi con interrogativi etici e filosofici di natura più profonda. Solo per scandagliare il panorama recente, vengono subito in mente Into the Forest di Patricia Rozema e The Survivalist di Stephen Fingleton. Al di là della logica straniante e dei presupposti in qualche modo ludici (c’è comunque di mezzo un gioco, anzi, un nobilissimo sport: il tennis) che presiedono all’intero impianto narrativo, si possono ravvisare un analogo spessore esistenziale e un’indiscutibile originalità anche nel film dell’esordiente Marc Lahore, The Open: una interessante co-produzione tra Belgio, Francia e Regno Unito, col partner britannico in grado di aggiungere alla dote, dal punto di vista delle location, quelle cornici naturali selvagge e parecchio suggestive, pescate nelle aree più brulle e inospitali della Scozia settentrionale.

Il sito ufficiale di The Open propone poi una tagline alquanto emblematica che può fungere anche da bussola, per meglio orientarsi in un così stralunato progetto cinematografico: “When Beckett meets Tank Gir… as Federer turns into Mad Max”. Sintesi ineccepibile. Alla quale andrebbero aggiunte, volendo, certe leggendarie partite di tennis fatte giocare da Antonioni, senza che la presenza delle palline venisse ritenuta indispensabile…
E così siamo arrivati al punto (ma non ancora al match point). Il film si apre in un contesto di assoluta normalità, con un dialogo tra giocatori professionisti di tennis e rispettivi allenatori, le cui analisi sul torneo appena conclusosi vengono bruscamente interrotte da un terrificante fuori programma: la città dove si trovano finisce all’improvviso sotto un pesante bombardamento. Altrettanto brusca ellissi temporale. E si scopre quindi che il conflitto ha avuto un esito devastante, apocalittico, con pochi sopravvissuti che si aggirano lungo lande desolate, uomini armati che si sparano a vista e aerei da caccia in perlustrazione nei cieli, per portare altra distruzione.
A ridosso di questa situazione così estrema succede però che una ex campionessa, Stéphanie, finisca sotto l’ala protettiva del coriaceo André, uomo dalle mille risorse che le si propone sia come guardia del corpo che come allenatore. Già, perché nel frattempo André ha prima fatto prigioniero e poi curato un giovane guerrigliero, Ralph, che si scopre avere a sua volta un passato, per quanto più modesto, nel tennis professionista.
L’apparentemente assurda idea prende forma a quel punto. Entrambi gli ex giocatori, sotto la guida del coach André, cominciano a viaggiare per le lande desolate e pressoché deserte, alternando le più elementari strategie di sopravvivenza a veri e propri allenamenti, compiuti però su campi di fortuna ricavati sull’erba o sulla sabbia, senza possedere nemmeno una pallina. I colpi vengono impostati e tirati così, limitandosi a immaginare la traiettoria dell’ipotetica palla e correndo come se tutto ciò fosse reale. André  manda avanti la cosa per settimane, ponendosi un altrettanto immaginifico obiettivo nella testa, ossia preparare i due per la loro iperbolica e autarchica finale del Roland Garros senza palla e senza spettatori.

In The Open il tennis diventa perciò emblema di resilienza, passione portata avanti anche per non perdere l’ultimo barlume di umanità, ma soprattutto di individualità, in un mondo caduto repentinamente nel baratro e totalmente spersonalizzato. Lo spettatore può all’inizio sorridere delle trovate più stranianti, gongolando magari di fronte agli improvvisati terreni di allenamento o campi base, che prendono il nome dai grandi tennisti di ieri e di oggi. Tuttavia, andando avanti, la spartana eleganza della messa in scena e i secchi dialoghi tra i protagonisti rendono evidente il valore simbolico di un racconto cinematografico, che, anche quando procede per astrazioni (il tennis immaginato, trasfigurato e collocato mentalmente al posto di un allucinante scenario bellico), riesce a essere graffiante nel rielaborare certi angoscianti stati d’animo che caratterizzano il nostro presente, ipotizzando però qualche iperbolica e salvifica via di fuga.

Stefano Coccia

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