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The Number

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VOTO: 7.5

Come animali in gabbia

La Settima Arte, per quello che ha potuto e voluto fare nel corso dei decenni, ha provato a raccontare in tutte le salse e da svariate prospettive il periodo pre, durante e post apartheid in Sud Africa, attraverso pellicole memorabili come il classico Un’arida stagione bianca fino al potente Invictus e all’adrenalinico District 9, dove la delicata questione veniva declinata in chiave fantascientifica con una metafora tanto trasparente quanto efficace.
I film prodotti sul tema sono dunque moltissimi, alcuni come quelli sopraccitati meritevoli di attenzione, altri finiti giustamente nel dimenticatoio perché incapaci di sviscerare, entrare e persino trattare l’argomento in questione. I registi che se ne sono occupati in questi anni lo hanno fatto passando, come abbiamo potuto notare nell’incipit, attraverso i diversi generi a loro disposizione, tra cui il dramma carcerario. Ed è lì che andiamo a circoscrivere la nostra analisi, rivolgendo lo sguardo verso un filone che ha visto numerose produzioni approdare sul grande schermo, a cominciare da Il colore della libertà, dove Bille August racconta la vera storia di James Gregory, la guardia carceraria sudafricana di pelle bianca la cui vita è stata radicalmente cambiata dall’incontro con un prigioniero speciale: Nelson Mandela.
Nella sterminata filmografia prodotta sull’argomento e riconducibile al genere chiamato in causa non esistono – o almeno siamo noi a non averne memoria – pellicole interamente ambientate in una prigione nel post apartheid. A colmare questo vuoto ci ha pensato Khalo Matabane con il suo The Number, presentato nel concorso lungometraggi del 28° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina dopo l’anteprima mondiale tenutasi al Toronto International Film Festival 2017. Il cineasta sudafricano, qui alla sua opera seconda dopo il pregevole State of Violence, ci catapulta senza rete di protezione in un carcere di massima sicurezza dove le uniche leggi rispettate sono quelle delle gang che, organizzate militarmente, regolano ogni cosa con una dura disciplina e severi codici. Ma dopo l’omicidio di un giovane da lui protetto, il capo gang Magadien decide di rompere la fratellanza e ritrovare se stesso.
Il realismo, la crudezza e la mancanza di filtri nel modo di raccontare e mostrare con cui Matabane ci scaraventa nell’inferno carcerario, nelle sue spietate regole non scritte di sopraffazione e sopravvivenza, nelle disumane condizioni di vita e nelle lotte di potere intestine, riportano alla mente visioni sconvolgenti come quelle de Il profeta, A Prayer Before Dawn, Hunger, Bronson o Cella 211. In The Number, Matabane catapulta lo spettatore di turno in una dimensione claustrale e profondamente ansiogena, confinata dal primo all’ultimo fotogramma utile (fatta eccezione per l’epilogo e per le sortite oniriche del protagonista) tra gli angusti e soffocanti spazi di detenzione, che restituiscono sullo schermo una kammerspiel carcerario che non offre via di scampo tanto ai personaggi quanto al fruitore. Spazi, questi, in cui si consuma una quotidiana battaglia fisica e mentale, che prende forma attraverso momenti di estrema violenza e scene di grande intensità. Quest’ultime mettono in vetrina le straordinarie capacità attoriali degli interpreti, in primis quelle di Mothusi Magano che nel ruolo di Magadien regala al pubblico un’altra eccezionale performance davanti la macchina da presa dopo Tsotsi e Hotel Rwanda.

Francesco Del Grosso

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