Once Upon a Time in Soviet Union
Una genialata. Sì, di quelle che in qualsiasi programma festivaliero non figurano poi così spesso, giacché non sono neanche tantissimi i titoli in circolazione capaci di scombussolare a tal punto le aspettative del pubblico, piombando sugli spettatori come uno sciame di meteoriti e scavandosi un posto tutto loro nell’immaginario cinematografico. Stranamente sulle sponde del Baltico sembra accadere più frequentemente che altrove. Senza neanche scomodare la riconosciuta maestria di Aki Kaurismäki, la Finlandia propone ogni tanto parabole autoriali eccentriche come quella di Anti-Jussi Annila, cineasta in grado di ibridare con sfrontatezza filoni cinematografici apparentemente distanti tra loro. Vedi l’horror Sauna (2008) ambientato in secoli remoti e ancor più Jade Warrior (2006), stralunata ibridazione di Wuxiapian e antiche mitologie scandinave. Restando affacciati sul Baltico, però, è nella “dirimpettaia” Estonia (la quale non a caso col popolo finnico intrattiene legami linguistici e culturali profondi) che è stato realizzato The Invisible Fight, altro ibrido bizzarro che non può aver lasciato indifferente la platea del torinese SEEYOUSOUND 2024.
Cosa può tenere uniti nello stesso plot rimandi alla defunta Unione Sovietica, coreografie degne dei film di arti marziali hongkonghesi, monaci ortodossi votati tanto alla preghiera che al combattimento corpo a corpo e la musica del Black Sabbath? Solo una mente “non ordinaria”, per alcuni magari anche perversa. Nella fattispecie quella del regista estone Rainer Sarnet, proveniente dall’animazione, già avvezzo a esperimenti cinematografici alquanto singolari.
Nel suo The Invisible Fight è già il prologo a sparigliare tutto, dettando nuove “regole d’ingaggio”: vediamo infatti tre briganti orientali dall’aria losca, beffarda, muoversi tra gli alberi come ninja per poi attaccare con tecniche funamboliche, senza apparente motivo, un posto di guardia tra la Russia e la Cina. Artefici in aria di mosse tanto grottesche quanto letali, i tre assalitori annoverano tra le loro armi anche uno stereo e traggono ispirazione per le loro coreografie dalla musica dei Black Sabbath!
Con “The Wizard” in sottofondo, l’intera guarnigione viene spazzata via e ad essere risparmiata è solo una giovane sentinella russa, Rafael, che da questa sconvolgente esperienza trarrà lo spunto per coltivare due grandi passioni: i Black Sabbath, per l’appunto, e le arti marziali. Rischiando pure, in un’Unione Sovietica già parecchio chiusa nei confronti di simili suggestioni straniere, d’andare incontro a un ulteriore affronto nei confronti della pervasiva cultura materialistica che lo circonda: la Fede!
Colori sparati come in un musical sovietico degli anni ’50. Pope ortodossi in clandestinità che nella padronanza delle arti marziali sembrano eguagliare i monaci Shaolin, restando umili. Burocrati comunisti rimessi (giustamente) al loro posto a suon di mazzate. Bizzarri corteggiamenti vanificati a volte dall’ingenuità dello stralunato protagonista. Improbabili tributi a Bruce Lee. Lampi di surreale umorismo, rapportati a qualsiasi elemento del cosiddetto “socialismo reale”. Momenti di preghiera interrotti da irresistibili sketch di taglio “slapstick”. Persino qualche scena di possessione, verso la fine, tale da ricordare una rivisitazione goliardica de “L’esorcista”.
Nel tritacarne dell’estone Rainer Sarnet finisce davvero di tutto, ma ciò avviene attraverso uno stile unico e trasmettendo un’irriverenza di fondo che si propaga dall’inizio fino all’ultima inquadratura. Con un brano leggendario come il già menzionato “The Wizard”, poi, a rendere l’hard rock, l’heavy metal e più in particolare i Black Sabbath custodi di un’operazione simpaticamente iconoclasta, verso quella società rigida, sclerotizzata e bigotta affermatasi in URSS. Laddove persino un monaco ortodosso, che le sue movenze ricordino o meno il combattente di un Wuxia, poteva trasformarsi nel ribelle di turno.
Stefano Coccia