Splendido e visionario affresco visivo, ma la confusione è tanta
E’ la metà del ventunesimo secolo e l’Intelligenza Artificiale ha fatto passi da gigante. I robot hanno ormai caratteri e personalità del tutto umani, vivono fra noi e svolgono i lavori più pesanti, ci aiutano nelle incombenze quotidiane. Come sempre in questi casi, qualcosa va storto e una testata nucleare lanciata dalle macchine incenerisce un milione di persone a Los Angeles. L’Occidente dichiara guerra alle Intelligenze Artificiali, le I.A, le bandisce, gli dà la caccia distruggendole una ad una. Non è così che reagisce il resto del mondo però e, anzi, in estremo oriente lo sviluppo della vita artificiale continua senza sosta: è qui infatti che un ignoto “creatore” prosegue la ricerca su un ulteriore miglioramento delle I.A. e, dunque, l’esercito americano desidera ucciderlo a tutti i costi per vincere la guerra. Joshua (John David Washington) è un sergente statunitense che riesce ad infiltrarsi in una delle cellule di guerriglieri che cercano, con enormi fatiche, di lottare contro l’invasore e, nel contempo, di creare una società dove possano convivere umani, robot e anche androidi, ovvero macchine dall’aspetto quasi umano. Joshua però commette l’errore di innamorarsi del capo dei combattenti, l’affascinante Maya (Gemma Chan), tanto da sposarla e metterla incinta. Nonostante questo, egli è a un passo dal conoscere la vera identità del Creatore per eliminarlo. E’ una notte del 2065 quando le forze speciali americane attaccano, guidate da un’enorme stazione da battaglia volante, la Nomad, in grado di localizzare e distruggere le I.A in tutto il mondo. E’ un massacro in cui la stessa Maya viene uccisa e la missione di Joshua va all’aria. Cinque anni dopo, l’uomo sbarca il lunario ripulendo la zona di Los Angeles devastata dalla bomba, quando viene contattato dal colonnello Howell (Allison Janney), che gli rivela che il Creatore ha realizzato un’arma potentissima in grado di cambiare le sorti del conflitto. E’ necessario assaltare il laboratorio in cui questa è custodita, struttura che Joshua ben conosce grazie al periodo in cui era sotto copertura: per convincerlo ad unirsi, gli viene detto che Maya è in realtà ancora viva e che potrà finalmente reincontrarla. Una volta sul posto, l’incursione finisce disastrosamente, mentre Joshua fugge con l’arma segreta che, in realtà si rivela essere una bambina (Madeleine Yuna Voyles) dagli enormi poteri e in grado di controllare le azioni di qualsiasi tecnologia. Il soldato, dapprima diffidente, la soprannomina Alphie man mano che il rapporto fra i due si umanizza. Inseguito come un traditore, il suo unico scopo ora è salvare Alphie affinché questa lo conduca finalmente dalla sua perduta Maya per poterla abbracciare un’ultima volta.
Come si vede, la premessa alla base di The Creator è molto complessa e nelle sue due ore abbondanti i protagonisti ci porteranno a visitare e scoprire l’inquietante mondo ideato dal regista Gareth Edwards, già alla guida dell’interessantissimo Rogue One – A Star Wars Story (2016). Si tratta di una incredibile e meravigliosa commistione di generi, dalla fantascienza pura al cyberpunk, dagli anime giapponesi, ai film di guerra, al gusto per la tecnologia dal sapore retrò (e la colonna sonora è stata attentamente scelta per esaltare i toni “vintage” della storia). E’ una società multirazziale, dove il vero diverso in cerca di accettazione è il robot, metafora più volte usata al cinema, e dove il futuro non è realmente tale ma si mescola con un passato che ritorna, con ricorsi storici neanche troppo velati. A rimarcarlo, una splendida fotografia che richiama i colori e la “grana” delle pellicole degli anni Settanta e Ottanta. La troupe, invece di ricreare al computer gli scenari, abitudine abusatissima da Hollywood, soprattutto da qualche anno, ha deciso di girare in moltissimi luoghi dell’Asia, filmando scenari naturali mozzafiato e usando paesaggi reali che si avvicinavano il più possibile a quelli della vicenda narrata. La post-produzione ha fatto il resto con gli effetti digitali. Grazie a tale sistema, l’immersività che è in grado di restituire questo universo bellico al confine tra due epoche, è dunque un vero sollievo in un cinema di solito avvelenato da sequenze e panorami che sembrano usciti da un noioso videogioco. Non tutto però funziona a dovere. L’idea del guerriero in fuga con un prezioso bambino speciale, è un concetto che dal 2019 viene già sfruttato dalla serie culto Star Wars – Il Mandaloriano (che si sarebbe dovuta fermare alla seconda stagione) e di cui Disney, ora proprietaria degli studios della 20th Century che hanno prodotto questo The Creator, ha cercato di servirsi anche nel 2021 nella serie animata Star Wars – The Bad Batch. Ovviamente, un topos letterario già visto non è detto che sia per forza un difetto se ben impiegato, ma il problema qui è che Gareth Edwards, che ha scritto la sceneggiatura con l’aiuto di Chris Weitz , sembra voler mettere troppa carne al fuoco, tanto da sollevare non pochi dubbi sulla coerenza dell’intero racconto. Come sempre non intendiamo fare “spoiler” e rovinare la visione ai futuri spettatori, ma ci limitiamo a chiederci come mai l’esercito americano possa girovagare indisturbato per tutta la Nuova Asia (fittizio stato che sembra comprendere tutto il sud-est asiatico e l’India), anche usando giganteschi veicoli corazzati, senza mai incontrare resistenza se non da una agguerrita ma sguarnita forza di polizia locale. L’enorme stazione Nomad non è ben chiaro a cosa serva, se funzioni come centro di comando globale o come base avanzata. E come mai non viene mai attaccata dalle forze aeree asiatiche (assenti pert tutto il film)? Come si sposta, visto che in un batter d’occhio, senza mai andare nello spazio, va per esempio da Los Angeles al Tibet, pur avendo da attraversare l’intero Oceano Pacifico? Come è possibile che i non meglio identificati servizi segreti sappiano sempre qualcosa in più di Joshua, che è però l’agente meglio infiltrato che possiedono gli americani? Di domande ce ne sarebbero a bizzeffe, soprattutto nello sconclusionato finale, ed è un vero peccato perché l’impatto visivo, se non visionario, di questo The Creator è certamente notevole: andrebbe visto più volte per notare e apprezzare tutta l’infinità di dettagli presenti in ogni inquadratura, ognuno utilizzato per conferire realismo e credibilità a ciò che si muove sullo schermo. Un lavoro certosino ed encomiabile, da salutare come una vera ventata di novità, e un ritorno a un certo modo di realizzare film, nel panorama cinematografico artefatto che ci è stato propinato da ormai troppo tempo. Questo viene fatto a scapito dei tratti caratteriali dei personaggi (come l’ennesimo spreco della bravura di Ken Watanabe, nel ruolo dell’androide Harun), ma probabilmente l’arco narrativo che si voleva sviluppare sta stretto in una sola pellicola, seppur di notevole durata.
E’ insomma l’occasione di andare al cinema per godere al meglio di un esperimento visivo di elevata qualità, ma bisogna fare i conti con la tanta, tantissima confusione in cui annega la storia.
Massimo Brigandì









