Seoul calibro 38
Un efferato omicidio scuote la Corea e scatta la caccia all’uomo. Due detective dai metodi molto diversi, Han-su e Min-tae, si contendono la risoluzione del caso. Una spacciatrice e abituale informatrice di Han-su gli assicura di conoscere l’identità dell’assassino, ma glielo consegnerà solo in cambio di un alibi per un omicidio che commette proprio davanti ai suoi occhi. Intanto Min-tae, che nel corso delle indagini ha scoperto il coinvolgimento del collega nell’insabbiamento, minaccia di rivelare tutto.
Se leggendo la sinossi di The Beast una forte sensazione di déjà–vu si dovesse impossessare della vostra mente non preoccupatevi, poiché è un riflesso celebrale assolutamente naturale. Eppure salvo le analogie del caso non vi è alcuna traccia di un plot simile nella produzione sud-coreana, cinematografia dalla quale proviene il film diretto da Lee Gong-ho, presentato di recente nel concorso della 29esima edizione del Noir in Festival. Non vi è alcuna traccia perché l’origine della trama vanno rintracciate oltreoceano, a migliaia di km di distanza nel Vecchio Continente e per l’esattezza in quel di Parigi. Quest’ultima, infatti, è stata nel 2004 la cornice di 36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal, della quale la pellicola del cineasta asiatico è il remake.
Svelato l’arcano delle reminiscenze, di conseguenza le dinamiche principali e le one-lines dei personaggi sono note a chi ha avuto modo di vedere il tesissimo thriller-poliziesco transalpino che tanto aveva fatto brillare gli occhi dei cultori della materia e degli appassionati del genere. Coloro che, invece, non hanno avuto nessun contatto con il film di Marchal, a loro consigliamo caldamente un pronto recupero, poiché nonostante le qualità riscontrabili in The Beast, la matrice viaggia su standard ancora più elevati, merito di una commistione genetica che ha riportato sullo schermo i colori e gli elementi caratterizzanti del polar vecchia scuola attualizzandoli.
Dal canto suo Gong-ho prende in prestito il materiale primigenio e lo plasma secondo le sue esigenze, prima di tutto collocando plot e personaggi in un’altra area geografica. A grandi linee le dinamiche narrative e drammaturgiche restano pressoché invariate, semmai a cambiare sono alcuni ingredienti della ricetta. In The Beast, infatti, nella colonna vertebrale poliziesca vengono innestate dosi più massicce di azione e un pizzico abbondante di serial-thriller, filone quest’ultimo molto gettonato ed esportato dalla cinematografia sudcoreana. Tali aggiunte alterano il DNA del progetto senza stravolgerlo. Fatto sta che si assiste a un film più duro nella messa in scena della violenza (vedi la scena dell’aggressione del diacono da parte del padre della vittima all’uscita della centrale di polizia), con un numero superiore di accelerazioni ritmiche in termini action (su tutte l’irruzione delle teste di cuoio nel covo degli spacciatori e la resa dei conti nel magazzino d’abbigliamento) a dare delle brusche scosse telluriche alla fruizione.
Meritevole la confezione tecnica (soprattutto fotografia e montaggio) e convincenti le interpretazioni di Lee Sung-min e You Chea-myung nei ruoli che furono di Daniel Auteuil e Gérard Depardieu, ciononostante 36 Quai des Orfèvres appartiene a un altro pianeta, vuoi per la sostanza e la compattezza che caratterizzano la scrittura e la messa in quadro, vuoi per la tridimensionalità e lo spessore che la coppia di attori riesce a dare ai due personaggi.
Francesco Del Grosso