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Murder Me, Monster

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VOTO: 7.5

In nomine Rorschach

Ennesima graffiante scoperta di un’edizione del Ravenna Nightmare rivelatasi più spumeggiante che mai, Murder Me, Monster (Muere, Monstruo, Muere, in originale) era già passato a Cannes 2018 nella sezione Un Certain Regard, con quel carico di inquietudini e di raffinate intuizioni registiche che possono testimoniare il livello di maturità raggiunto dall’autore, l’argentino Alejandro Fadel. Un nome solo in parte nuovo, considerando la positiva accoglienza riservata alle sue prime opere da regista, come anche l’aver collaborato a livello di scrittura con figure importanti del cinema latinoamericano: Damián Szifrón (suo Storie pazzesche, grottesco e dissacrante film a episodi), Pablo Trapero e Walter Salles, tra gli altri.
Originario di Mendoza, Fadel proprio in quella regione dell’Argentina, tra piccoli centri abitati, brulle pianure e maestosi picchi sullo sfondo, ha voluto ambientare il suo disturbante, morboso lungometraggio. Ed è quindi il paesaggio a fare da protagonista aggiunto. Anche perché, giocando spregiudicatamente con la peraltro curatissima componente fotografica, il regista è riuscito persino a raffigurare quelle vette innevate all’orizzonte in modo apparentemente così speculare, simmetrico, da creare effetti ottici che facessero pensare subito al test di Rorschach. Un austero e solenne panorama, divenuto (quasi letteralmente) specchio di profondi turbamenti interiori.

Rorschach. Gli impervi sentieri della psichiatria. L’ambiguità di certe immagini. I meccanismi inconsci della proiezione. Le più perniciose forme di disagio mentale e di carenza affettiva. Sono, questi, tratti tutt’altro che accessori, nella certosina confezione di un oggetto filmico senz’altro atipico, che trasfigura l’essenza stessa del moster movie inserendone gli stilemi in una detection ambivalente, che con toni quasi lovecraftiani non rinuncia a una rappresentazione estremamente raccapricciante dell’orrore, passando però prima attraverso i più oscuri meandri della psiche umana.
Sin dalle primissime inquadrature cura stilistica e venature macabre si fanno apprezzare: davvero impressionante il piano-sequenza iniziale, nel corso del quale la macchina da presa sale lentamente dal terreno per inquadrare prima un gregge di pecore, alcune delle quali sporche di sangue, poi la sagoma barcollante di una donna dagli occhi sbarrati e con una profonda ferita sul collo, che nonostante sia stata quasi decapitata tenta disperatamente di tenersi in piedi. Cadaveri senza testa. Improbabili assassini fermati da disillusi e malconci agenti di polizia. Sagome scure e misteriosi tentacoli che come ombre sfuggenti fanno capolino nella notte. Ad imporsi è così un’estetica espressionista (il titolo stesso, con quella triplice M in evidenza, può far pensare a Fritz Lang) che sfugge però a qualsiasi categorizzazione rigida: tra assurde apparizioni di motociclisti e ritornelli ipnotici che rimbombano nella testa del sospettato di turno come in quelle degli investigatori, si alternano piste da noir classico o da più rarefatto film di mostri della Universal a scioccanti e disgustose epifanie; compresa, ovviamente, quella della creatura, la cui nauseante alterità viene messa in scena in forma di sensuale depravazione, con un appeal iconografico la cui spregiudicata visionarietà pare attingere al fumetto Hentai giapponese come pure al gore anni ’80 o ai peggiori incubi cronenberghiani.

Stefano Coccia

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