Sull’orlo del vulcano
I film a carattere antropologico sono, più di altri, materia da maneggiare con assoluta cura. Osservato da tale prospettiva, un lungometraggio come Tanna – premiato alla Settimana della Critica della Mostra del Cinema di Venezia 2015 e candidato per l’Australia agli Oscar nel 2016 – rappresenta un interessante esperimento di ibridazione tra full immersion in una cultura lontana e contaminazione con materiale narrativo strettamente “occidentale”. Non è infatti un mistero che la trama di Tanna, al netto delle descrizioni sociali del posto, ricordi molto da vicino quella della tragedia shakespeariana “Romeo e Giulietta”, eterno paradigma di storia d’amore universale.
Ambientato nel meraviglioso scenario naturale dell’arcipelago di Vanuatu a sud dell’Oceano Pacifico, dove gli stessi registi Martin Butler e Bentley Dean – documentaristi di nascita artistica. Si nota, eccome… – hanno vissuto per parecchio tempo, il presupposto principale di Tanna è proprio quello di raccontare un melodramma a valenza globale evidenziando in tutto e per tutto le convenzioni sociali indigene. Di fatto il racconto vero e proprio rispetta appieno l’atavicità della parabola che vede la storia d’amore tra due amanti promessi ostacolata dalla ragion “tribale” – definiamola in questo modo, nella circostanza si tratta di scongiurare un sanguinoso conflitto – che vorrebbe la pratica dei matrimoni arrangiati prevalere sulle ragioni del cuore. Molto efficace nella prima parte, quando l’occhio cinematografico di Tanna è saldamente concentrato sull’osservazione dei rituali, anche ludici, che rappresentano il cuore della realtà di quelle terre, il film perde qualche colpo nel momento in cui si fa un po’ troppo manifesta “l’interferenza” autoriale della coppia registica, la quale costringe i due volenterosi interpreti che impersonano gli innamorati Wawa e Dain ad una recitazione forzata avente in sé qualcosa di straniante nella sua esemplarità. Difetti che non inficiano comunque un risultato finale che vira decisamente al positivo, con ottime annotazioni ironiche sulla presunta ospitalità della comunità cristiana – i quali componenti pretenderebbero di cambiare in toto le abitudini dei protagonisti: meglio la vita solitaria nella foresta, a quel punto – nei confronti dei due amanti in fuga, nonché una commovente descrizione del rapporto affettivo che unisce Wawa e sua sorella minore Selin, destinata a raccogliere i benefici del sacrificio estremo della stessa Wawa. Per la serie: nessuna società ad alcuna latitudine dovrebbe essere refrattaria ad un cambiamento atto a privilegiare le libertà individuali. Tale morale conclusiva di Tanna andrebbe, tanto per fare un esempio a noi ben noto, appuntata a grosse lettere nei confronti dei legislatori italiani, troppo spesso prigionieri di meschini calcoli d’interesse.
E comunque, per chiudere, le paradisiache locations che fanno da sfondo attivo in Tanna, ivi comprese fantastiche – e metaforiche, nell’economia del racconto – riprese di vulcani in attività, potrebbero tranquillamente essere considerate protagoniste di un film a parte, talmente risultano suggestive nella materializzazione reale di un sogno esotico capace di accomunare qualsiasi spettatore, sia appassionato che occasionale. Del resto l’essenza del Cinema è anche – e forse soprattutto – questa.
Daniele De Angelis