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Talk to Me

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VOTO: 6

Non stringete quella mano

L’horror della stagione cinematografica? A giudicare dagli incassi oltreoceano di Talk to Me dei gemelli australiani Danny e Michael Philippou sembrerebbe che tale possibilità sussista davvero. Tuttavia non è tutto oro ciò che luccica, come recita l’antico detto.
Talk to Me parte da una premessa narrativa davvero esile e molto sfruttata, maggiormente adatta ad un cortometraggio rispetto ad un lungo. Una mano imbalsamata – peraltro pare già diventata oggetto di culto e merchandising, tanto per adeguarsi allo spirito del tempo corrente – appartenente ad una medium orribilmente trapassata, se stretta pronunciando determinate parole consentirebbe un contatto con gli spiriti dell’aldilà. Ovviamente il suddetto oggetto finisce, dopo un prologo misterioso ed inquietante, a suscitare la curiosità di un gruppo adolescenziale assai poco avveduto, capace di rendere il sinistro rituale passatempo per serate altrimenti riempite solo di droghe ed alcool. Primo segnale d’allarme per Talk to Me: una gioventù decerebrata raccontata attraverso una descrizione basica e stereotipata, priva di alcuna profondità tridimensionale. I fratelli Philippou – di cui Danny risulta accreditato anche come sceneggiatore del film, assieme a Bill Hinzman – provano allora a riscattarsi su altri versanti. In primis la sofferenza ed il dolore che fanno da innesco al personaggio principale, un’adolescente di nome Mia. La quale ha di recente perso la madre in circostanze controverse – parrebbe suicidio – e non vede l’ora di contattarla ancora per comprendere appieno la realtà dei fatti. La famigerata mano fa quindi esattamente al suo caso; e l’incontro materno avverrà, sia pure avendo conseguenze tragiche e spaventose perché l’altrove dove allignano le anime dei morti tutto è tranne che un posto piacevole.
Nessun tiri in ballo Lucio Fulci provando a definire Talk to Me un lungometraggio “neo-fulciano”. Nel film dei trentenni Philippou non è presente nemmeno una sequenza in grado di inorridire, rinnovare il genere dal proprio interno anche a costo di “usargli violenza”. Da buoni youtuber – molti dei lavori precedenti dei Philippou, parodie non solo horror dirette con il nome d’arte di RackaRacka, si trovano lì – all’esordio nel lungometraggio i gemelli si muovono con scaltrezza, avendo ben presente il target a cui il film è indirizzato. Più che un compatto film di genere Talk to Me sembra un saggio di fine corso atto a far comprendere ad una platea più vasta il talento di chi l’ha diretto. Ed osservato da questa prospettiva è difficile affermare che il lungometraggio non abbia raggiunto lo scopo prefissato. Abbandonate le goliardie dei precedenti lavori i Philippou inondano il loro esordio di un pessimismo assoluto, in cui l’aldilà è popolato da anime senza pace e perciò minacciose, pronte a possedere viventi sui quali sfogare la propria ira repressa. Sequenze molto ben curate da un punto di vista registico si susseguono prive di un filo narrativo degno di questo nome, poiché la ricerca della paura, in questo caso, appare più una questione di forma che di approfondita indagine sui malesseri latenti che affliggono la gioventù contemporanea. Anche la scelta del cast, a parte la protagonista Sophie Wilde (Mia) ed il giovanissimo Joe Bird nell’unico ruolo capace di generare brividi ed empatia, risente di tali scelte: tutti molto al di sotto di standard recitativi accettabili. Costituisce eccezione la veterana Miranda Otto, artefice di un personaggio adulto comunque poco coerente nei comportamenti. Non il solo sintomo di una sceneggiatura assai rivedibile.
Visti i vertiginosi incassi, soprattutto se rapportati ai costi di lavorazione, Talk to Me pare si appresti a divenire un autentico franchise, con un prequel già girato e vari sequel da realizzare. Una prospettiva tutt’altro che esaltante considerando che il genere horror, radicale e innovativo per antonomasia, avrebbe continuo bisogno di essere alimentato da nuove idee nonché differenti soluzioni di messa in scena. In Talk to Me ci saremmo pure con la seconda parte del discorso, almeno con la benevolenza che dovrebbe sempre accompagnare un’opera prima; riguardo alle idee siamo invece lontanissimi dall’apportare un significativo contributo di originalità. Non resta allora che affidarsi alla speranza che col tempo i Philippou affinino il loro stile a trecentosessanta gradi.

Daniele De Angelis

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