Nelle mani degli Immortali
Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali.
Jorge Luis Borges
Mix di generi e di intuizioni cinematografiche davvero irresistibile, Sweet Mary, Where Did You Go? è un cortometraggio della cui crudeltà ci si può anche innamorare. Sadico, perverso, ma anche mistico e sottilmente straniante, l’eccentrico lavoro cinematografico di Michael Anthony Kratochvil, film-maker australiano le cui opere possono già vantare diversi premi, era in concorso al triestino Science + Fiction nel 2021. E lo ritroviamo ora tra i corti selezionati per la seconda edizione dell’Indiecinema Film Festival. Ci fa immensamente piacere che questo inquietante, originale oggetto filmico continui a viaggiare per festival anche in Italia, visto che la sua estetica così peculiare e le riflessioni di cui si fa carico ci hanno segnato in profondità.
Abbiamo accennato poc’anzi a un’ibridazione di generi. L’incipit stesso sosta a metà strada tra film storico in costume ed esotica avventura: alcune didascalie avvertono infatti lo spettatore che ci si trova nell’Australia di inizio Ottocento, per la precisione dalle parti di Sullivan Bay, territorio ancora selvaggio che per breve periodo fu usato anche come colonia penale, prima di essere abbandonato per la difficoltà a reperire acqua potabile. Ma da lì nel frattempo erano riusciti a scappare alcuni prigionieri. Di uno di loro, William Buckley, sono storicamente noti i romanzeschi trascorsi, che lo videro sopravvivere e unirsi a un gruppo di Aborigeni coi quali rimase per diversi anni. Altri morirono durante il tentativo di evasione. E di altri ancora si perse ogni traccia. Ma c’è da supporre che non fecero una bella fine, considerando l’ostilità di quei luoghi e i tanti pericoli ivi presenti…
Ecco, in Sweet Mary, Where Did You Go? si prova a immaginare il destino di uno dei fuggitivi, piuttosto anziano, barba incolta e vestiti laceri. Ma la sua esistenza ai bordi della foresta sfugge ben presto a canoni realistici per andare incontro al fantastico. E con esiti alquanto traumatici.
C’è un’inquadratura rivelatrice all’inizio di un film senz’altro breve, ma perfettamente in grado di restituirci una visione coerente nei quindici minuti o poco più di durata. Trattasi della scena, che verrà riproposta poco più avanti in una situazione sensibilmente mutata, dove a essere ripreso è l’ingresso della modesta, striminzita capanna in cui il fuggiasco si è acquartierato. Proprio dal giaciglio che costui si è creato, la macchina da presa guarda verso l’esterno, coi piedi scalzi dell’uomo in primo piano. Monito anch’esso da non trascurare, quei piedi sono già presi d’assalto da sparute colonne di formiche dell’area tropicale, il cui morso può risultare parecchio fastidioso, persino doloroso.
Ma il successivo contatto dell’uomo col dolore fisico sarò di ben altra portata. Nella foresta hanno fatto per l’ appunto la loro comparsa alcune figure ieratiche, vestite di bianco, luminescenti, che il protagonista – non riuscendo ad avere rapporti di sorta con loro – si limita a osservare con un briciolo di apprensione. A breve si scoprirà che sono il frutto di una nostra evoluzione, viaggiatori e viaggiatrici del tempo che hanno ottenuto meravigliosi poteri, tra cui quello di rigenerarsi dopo un danno fisico, ma che in quella loro nuova condizione hanno perso determinati orizzonti morali. Difatti si muovono attraverso le epoche compiendo, accompagnati da un’aura misticheggiante, crudeli esperimenti sugli esseri umani del passato. E così l’ennesima inquadratura rivolta dall’interno del rifugio verso l’esterno (divenuto ancora più minaccioso) di quell’improvvisato ricovero e verso le gambe dello sfortunato individuo è destinata a rappresentare, per lui, il preludio di un efferatissimo e apparentemente gratuito supplizio. Sebbene dall’’intrusa piombata lì attraverso un varco spazio-temporale sembri trapelare, accanto all’evidente sadismo, un distorto desiderio di conoscenza, affiorante nelle modalità stesse di quei riti di sangue.
Sospesi idealmente tra l’innata propensione alla tortura dei Supplizianti di Hellraiser e la noia galoppante degli uomini che vollero farsi immortali nel capolavoro di John Boorman, Zardoz, rievocato pure probabilmente dalle singolari vesti dei carnefici, questi personaggi introdotti dalla torbida fantasia di Michael Anthony Kratochvil danno vita (e morte, oseremmo dire) a un inquietante tableau vivant metafisico, la cui natura sanguinaria proietta ombre sinistre su un possibile futuro dell’umanità; raggiungendo poi l’acme, a livello stilistico, nell’impronta surrealista, granguignolesca e ultra-pop dell’epilogo novecentesco, laddove ignari bagnanti vengono massacrati con altrettanta ferocia.
Stefano Coccia