Un ultimo boccone amaro da mandare giù
Per la parabola autodistruttiva narrata in Swallow, l’esordiente Carlo Mirabella-Davis si è ispirato al ricordo della vita di sua nonna Edith, affetta da quello che è stato battezzato picacismo, un disturbo alimentare che porta le persone a ingerire oggetti non commestibili. Da qui il titolo – ingoiare appunto – e il plot al centro del film presentato nel concorso lungometraggi della 24esima edizione del Milano Film Festival, approdato nella kermesse meneghina dopo un pluri-decorato percorso nel circuito internazionale iniziato al Tribeca.
Il cineasta newyorchese ci scaraventa nell’esistenza apparentemente perfetta di Hunter. È incinta, felice e vive una vita armoniosa nella sua grande casa sul lago. Non tutto è però come sembra, sotto la patina di apparente armonia si rivela una realtà di piccoli abusi e crudeltà. La donna, trascurata, non ascoltata, abbandonata al pari degli oggetti di cui riempie il suo meraviglioso appartamento, non ha altro strumento che l’autolesionismo per rimarcare la propria presenza agli altri. Ciò la porta a iniziare a ingerire incontrollabilmente oggetti sempre più pericolosi.
Sin dalla sinossi si capisce quale lavoro di stratificazione ci sia dietro una pellicola come questa, a cominciare dalla chiave di lettura metaforica e astratta rintracciabile sotto la mera superficie di un dramma contemporaneo sulla malattia, la condizione femminile, l’incomunicabilità, l’affermazione della propria identità e il bisogno di stringere e preservare legami affettivi. Il terminale è il corpo e la mente di una Cenerentola schiacciata dal peso dell’accondiscendenza altrui (il marito e la famiglia di lui) e ferita dal costante rifiuto biologico (i suoi genitori), circoscritta tra le quattro mura di una “gabbia d’orata” che la imprigiona psicologicamente ancora prima che fisicamente. Di fatto questo corpo da materiale si trasforma in un (s)oggetto simbolico per puntare il dito con chiarezza e decisione verso la Società del benessere a stelle e strisce, luccicante a un primo e fugace sguardo, ma maledettamente insana e destabilizzata al di sotto della corazza. Una corazza che l’autore va a scalfire con una critica il più delle volte feroce, ma che di tanto in tanto viene addomesticata da una punta che si fa meno affilata.
Ciò alla quale assistiamo è una rapida scalata destinata a trasformarsi in un incubo a occhi aperti che sa essere al contempo crudamente realista e genuinamente surreale. Swallow si muove efficacemente lungo questa doppia bisettrice che in svariate occasioni finisce per intersecarsi quando l’una penetra violentemente nell’altra e viceversa. Per farlo, l’autore innesta nel DNA drammatico dosi variabili di horror, dark comedy e thriller, dando forma per immagini e parole a un’ibridazione che usa i codici dei suddetti generi per provocare nello spettatore un’imprevedibile mix di sensazioni e reazioni contrastanti. Il tutto narrato da una regia esteticamente pregevole e funzionale che accompagna il fruitore in un viaggio nei meandri di una sofferenza senza fine, resa tangibile dalla performance intensa, vera e straziante di una bravissima Haley Bennett.
Francesco Del Grosso