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Suspension

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VOTO: 5,5

Papà è un maniaco omicida

La prima giornata del Fantafestival… in breve.
Concetto tutto da interpretare, nel senso che di questo appuntamento inaugurale col 35° Fantafestival, incentrato in realtà sul grande evento dedicato a Profondo rosso (“quarant’anni e non sentirli”, sarebbe lo slogan ideale per il capolavoro di Dario Argento), l’impatto con il cosiddetto cinema breve ci è piaciuto senz’altro di più del primo lungometraggio visto in anteprima, Suspension.

Tra i corti serali, invece, non sono mancate le liete sorprese. A partire, volendo, dal primissimo lavoro a essere proiettato, As You Were dell’americano Trevin Matcek: ovvero il problema del reducismo visto in un’ottica Sci-Fi, attraverso la vicenda esemplare di un soldato del futuro gravemente ferito nel corso di una guerra robotica, ma costretto poi paradossalmente a convivere con due arti meccanici, che lo rendono più potente e al contempo “diverso”, agli occhi della stessa famiglia. Atmosfere un po’ alla Tim Burton e un po’ alla Wes Anderson per l’eccentrico, divertente Dead Hearts, in cui il tenero affetto tra il rampolllo di una famiglia storicamente impegnata nel settore delle pompe funebri e una ragazzina cieca appassionata di tassidermia, quasi inevitabilmente, pare desinato a protrarsi oltre la morte. Tra l’altro il regista Stephen W. Martin è canadese così come canadese risulta la produzione del già citato Suspension, per cui si potrebbe giocare anche un po’ sul fatto che la nazione nordamericana si sia espressa meglio in pillole, che sulla lunga distanza. Nota di merito, infine, per il film-maker carioca Joel Caetano: nell’originale cortometraggio girato in Brasile, Judas, proprio uno di quei fantocci del personaggio biblico, che nel corso di celebrazioni locali vengono bruciati o fatti a pezzi, improvvisamente si anima e si ribella. Così si può assistere anche alla catartica riscossa di una delle figure più ingiustamente bistrattate dei Vangeli…

Tornando ora a Suspension, “slasher” vivace ma sconclusionato realizzato in Canada, non è tanto la regia dello statunitense Jeffery Scott Lando (Thirst, Savage Island e Goblin, tra i suoi lavori) ad aver suscitato perplessità, quanto piuttosto la faciloneria dello script firmato Kevin Mosley. Davvero un peccato, perché l’idea di riprendere l’immagine del serial killer praticamente invincibile, dal fisico statuario e corredato di maschera sul volto, vero archetipo del filone, collocandola però in una cornice narrativa insolita, almeno all’inizio stava funzionando. Le gesta dello spietato assassino vengono difatti narrate su due piani differenti, quello presente e quello di una parabola fumettistica riferita alla vecchia strage compiuta dall’uomo, strage che la figlia stessa del killer (non male lo sguardo spiritato della protagonista Ellen MacNevin alias Emily) si diletta morbosamente a disegnare rielaborandola a modo suo. Questa felice intuizione è però sviluppata malissimo, tanto nella coerenza narrativa di base che in quegli snodi cruciali del racconto annunciati in modo fin troppo prevedibile, soprattutto quanto i due livelli della storia cominciano a intersecarsi. Più interessanti, dal punto di vista linguistico/stilistico, sono le parti in cui si impone (con tanto di sequenza cartoonistica iniziale) un’impronta fotografica dal sapore ugualmente fumettistico, “pulp”, che come accostamenti cromatici può far pensare a Sin City. Ma anche lì qualcosa di pacchiano è nell’aria. Perciò sorprende solo in parte che i pixel impazziti del sangue raffigurato sui corpi delle prime vittime ricordino, in maniera un po’ imbarazzante, gli effetti digitali “cheap” delle produzioni cinematografiche più scalcinate della Asylum.

Stefano Coccia

 

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