L’assedio degli “anta”
Il cinema di Noah Baumbach vive di scarti pressoché impercettibili, digressioni su tematiche che possono apparire a prima vista ordinarie ma che nelle sue mani di cineasta assumono tutte le caratteristiche di un viaggio irripetibile nelle zone nascoste dell’animo umano. Giovani si diventa – bislacco titolo italiano per l’originale While We’re Young, a mettere in evidenza l’estrema transitorietà di un periodo specifico dell’esistenza – non costituisce certo un’eccezione alla sua poetica. Nel caso di questo suo lavoro Baumbach, attraverso un film che per comodità critica potrebbe essere catalogato nei contenuti come un Woody Allen prima maniera causa brillantezza dei dialoghi, toni in apparenza leggeri e ambientazione newyorchese ma girato con la quotidianità di un John Cassavetes nei movimenti di macchina e nella fotografia smorta e ordinaria, mette a confronto due coppie di generazioni differenti. Josh (Ben Stiller) e Cornelia (Naomi Watts) hanno superato già da tempo l’entusiasmo dei primi anni di matrimonio. Josh, documentarista in stasi creativa, conosce nell’ambito di un corso di cinema da lui tenuto Jamie (Adam Driver) e Darby (Amanda Seyfried), giovani e freschi sposini. Josh viene immediatamente colpito dall’intraprendenza di Jamie, desideroso di percorrere le sue stesse orme nel cinema. Mentre Cornelia, che vive della gloria riflessa del padre, nome illustre del documentarismo americano, lega subito con Darby, autentica artista del gelato. Quella che sembra una conoscenza fortuita in grado di apportare benefici ad ogni personaggio del quartetto si rivela pian piano, per la coppia più “anziana”, una sorta di discesa kafkiana in ciò che si sarebbe voluto ma non è stato, l’emersione conclamata di un rimpianto fino a quel punto in stato di latenza. Josh e Cornelia, soprattutto il primo, paiono ringiovanire al contatto con la gioventù, almeno in un primo momento; salvo poi comprendere, tanto gradatamente quanto inevitabilmente, come la differenza di età non si traduca solo nella semplice misurazione degli anni bensì in modi del tutto differenti di osservare le questioni da un punto di vista etico. In Giovani si diventa Baumbach ragiona filosoficamente, senza alcuna ombra di pedanteria, su come cambia il mondo senza che nessuno si accorga di questa inoppugnabile verità prima di scontrarsi bruscamente con la nuova realtà. Il personaggio di Josh, in questa chiave, risulta un autentico catalizzatore di empatia: costretto a vivere nell’ingombrante ombra del suocero – interpretato da un Charles Grodin ormai ottantenne: il tempo passa anche fuori dalla diegesi del film… – e assediato dal cosiddetto nuovo che avanza del tutto privo di scrupoli, incarna perfettamente la figura dell’ultraquarantenne incapace di trovare la propria soddisfazione esistenziale. Senza le nevrosi di un Greenberg – per citare l’altro personaggio frutto della prima collaborazione di Stiller con Baumbach ne Lo stravagante mondo di Greenberg (2010) – Josh è un novello Don Chisciotte contemporaneo, peraltro ben consapevole della propria condizione, destinato ad una lotta impari contro i mulini a vento, ad una battaglia già persa in partenza contro quelle nuove generazioni capaci di sfruttare al meglio qualsiasi possibilità di mistificazione venga offerta loro da una società sempre più modulata sul virtuale rispetto al reale. Dove per reale s’intende innanzitutto il coraggio estremo della sincerità verso se stessi e, di conseguenza, gli altri.
Anche in Giovani si diventa accade dunque il “miracolo”, sempre puntuale nel cinema di Baumbach. Personaggi che si fanno di carne perché in odore di vita vissuta, alla disperata ricerca di un senso come capita a chi suole riflettere, anche solo per qualche attimo, sui fatti dell’esistenza. Se nella finzione il documentario diventa per Josh ricerca di verità mentre per Jamie solo un’altra opportunità di spettacolo e potenziale successo, Baumbach “usa” il suo film per mettere al centro del discorso l’essere umano in tutte le sue mille e più sfaccettature e contraddizioni, astenendosi da qualsiasi forma di giudizio aprioristico. Tutto viene delegato alla singola sensibilità dello spettatore, ala sua capacità di giudizio. E tuttavia il regista ci regala un’ultima sequenza da antologia e un’ultimissima inquadratura di esemplare inquietudine, in cui Josh e Cornelia – ai quali la vita non ha riservato la gioia e la responsabilità della procreazione, motivo per cui stanno optando per l’adozione – osservano tra il divertito e lo sbigottito un bambino/a di pochi mesi intento ad armeggiare già con inopinata cognizione di causa con lo smartphone di uno dei genitori. Alla fine si può forse provare a ingannare se stessi, illudendosi di poter cristallizzare il presente in un’infinita coazione a ripetere; e tuttavia, prima o poi, arriverà il momento in cui il tempo che passa non farà sconti, facendo capire brutalmente quanto, quasi per legge di natura, si è rimasti indietro.
Daniele De Angelis