Un limbo in Albania
Come anime perse in un lembo di terra paludosa, che per chi vi abita ha tutte le prerogative esistenziali del Limbo: i protagonisti di Bota Cafè si aggirano, ognuno col proprio carico di aspirazioni, speranze tradite e conti aperti con la società che li ha sospinti ai margini, in un (non) luogo che finisce per raccontare molto di come appaia oggi l’Albania, sospesa tra un passato fosco e un futuro su cui incombono le ombre della corruzione e di un non meno pernicioso liberismo selvaggio.
Queste sono le prime sensazioni che comunica, anche sul piano simbolico, il Bota (termine che non a caso in lingua albanese significa “mondo”), solitario caffè la cui posizione apparentemente insignificante e poco produttiva, in una landa brulla, è ideale crocevia di microcosmi diversi. Il locale si trova del resto nelle vicinanze di un villaggio tagliato fuori da tutto, dove il dispotico regime di Enver Hoxha era solito confinare le famiglie dei dissidenti politici, costretti a prestare servizio in un attiguo campo di lavoro. Alcuni anche giustiziati e fatti sparire negli acquitrini circostanti. E così sia chi gestisce il bar che gli sparuti avventori sono perlopiù gli involontari eredi di tale situazione sociale e famigliare, coloro insomma che non sono riusciti ad abbandonare quel posto e ad integrarsi negli standard attuali di un paese, che ha comunque ceduto alla pressione delle speculazioni e di un cinico individualismo; la strada che si sta costruendo a pochi kilometri di distanza, in parte con capitali italiani, è il richiamo concreto al “nuovo che avanza” con tutto quel carico di ambiguità che si può facilmente immaginare…
Negli ultimi due decenni il cinema albanese ci ha abituato a una produzione non così rilevante sul piano numerico, ma spesso estremamente efficace e matura a livello artistico: da Slogans di Gjergj Xhuvani a Tirana anno zero di Fatmir Koci, passando per i film di un autore come Edmond Budina, stabilitosi per lavorare proprio in Italia. Ecco, un’altra caratteristica assai frequente nel cinema che viene realizzato in Albania è rappresentata dall’utilizzo accorto di co-produzioni internazionali. Lo stesso Bota Cafè è frutto di una co-produzione italo/albanese. Ne hanno saputo approfittare benissimo i due autori, Iris Elezi e Thomas Logoreci, con la prima che gode anche all’estero di ottime referenze in ambito documentario e questo stilisticamente si vede, si fa notare, conferendo un’impronta positiva alla stessa dimensione spaziale del lungometraggio. Una regia attenta e consapevole si sposa quindi con la costruzione, a tratti impressionistica ma comunque meticolosa, di psicologie che rendono i personaggi di Bota Cafè oltremodo credibili, umani e veritieri, per via della loro perpetua oscillazione tra il grigiore del passato e un futuro carico di incertezze.
Stefano Coccia