Ma che bel cartello
L’Argentina è un paese luminoso ma con degli aspetti oscuri e pieni di morte. Così si esprime Susan, una professoressa di letteratura, incontrando Sujo, il ragazzo protagonista del film messicano Sujo, di Astrid Rondero e Fernanda Valadez, presentato nel concorso lungometraggi “Finestre sul mondo” del 33° Festival Cinema Africano Asia e America Latina e in quello del 17° Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano, dopo il successo dell’anteprima al Sundance. Susan, una donna di mezza età, è fuggita dall’Argentina per trasferirsi in Messico quando era giovane, fuggendo, come è chiaro da questa battuta, dalla dittatura. La prima volta che si vede nel film sta iniziando una lezione a tema barocco, libero arbitrio e determinismo, due concetti, gli ultimi due, che confliggono nella parabola di vita di Sujo. Il rapporto che la professoressa instaura con il il ragazzo, orfano e privo di cultura, è una delle situazioni più tenere del film. Sujo è un essere sperduto, è orfano perché il padre, un sicario di un cartello del narcotraffico, è stato assassinato mentre lui era bambino. Dopo essere stato allevato dalle zie in campagna, si rifugia a Città del Messico. Il rapporto tra Susan e Sujo, come si diceva, è indicativo per tanti motivi, la differenza di età e di istruzione, ma anche l’appartenenza a due paesi martoriati e il concetto della ineluttabilità di un destino tragico che coinvolge un intero paese. Appunto il determinismo. La vita di Sujo è stata contrassegnata fin dalla tenera età dalla cultura della malavita organizzata, nell’onta di essere il figlio di un sicario che è stato eliminato perché reputato un traditore, cosa cui finisce per credere lo stesso ragazzo. E inevitabilmente suo destino sembra predeterminato dalla cappa criminale che aleggia nel paese. Sujo è un romanzo di formazione in un contesto difficile come quello messicano.
Astrid Rondero e Fernanda Valadez raccontano la vita di Sujo in quattro capitoli, ognuno dedicato ai comprimari diversi che accompagnano il ragazzo nelle varie tappe della sua vita, Josue El Ocho, Nemesia, Jeremy e Jai, Susan. E mostrano una notevole eccentricità di regia, giocando sui contrasti tra interni ed esterni, campagna e città, natura e cultura. Tante scene sono viste attraverso i vetri, anche offuscati, di un’automobile, che all’inizio diventa anche una gabbia in cui il bambino rimane chiuso, oppure ci sono giochi di immagini riflesse con gli specchietti retrovisori. C’è una scena con le candele che fungono da unica fonte luminosa interna, girata con le luci naturali, come le famose candele di Barry Lyndon. Una curiosa coincidenza accomuna Sujo al celebre film settecentesco di Stanley Kubrick ed è la questione del nome, cui si dà risalto già nel titolo stesso del film. Tutti i nomi hanno un significato, lo dicono tutti quelli che chiedono al protagonista lumi sul suo nome. E nel film c’è per esempio una zia del protagonista che si chiama Nemesia, nome assonante con Nemesi, la personificazione nella mitologia greca e latina della giustizia distributiva. Il significato del nome del ragazzo si scoprirà alla fine, in una scena collegata a quella iniziale con una struttura circolare, e si rivelerà come legato a un cavallo in fuga, simbolo di libertà, in un mondo pervaso dagli autoveicoli a motore.
Giampiero Raganelli