Somiglia il mio vedere all’occhio dei cavalli
Ricorda questo incedere il passo dei cavalli,
Pesante travolgente, leggero e titubante
Testardo e ribelle, paziente strafottente
Capace di volare, e pronto a incespicare
C.S.I. “Io e Tancredi”
Islanda sugli scudi. Da poco è uscito è uscito in sala l’ottimo Rams – Storia di due fratelli e otto pecore, diretto dal giovane Grímur Hákonarson e vincitore della sezione “Un Certain Regard” pochi mesi fa a Cannes. Abbiamo già un punto a favore, quindi. La cinematografia islandese non può essere certo considerata tra le prime in Europa, per quanto riguarda il numero di produzioni concluse annualmente, ma a livello qualitativo la piccola nazione nordica ha dimostrato in tempi più o meno recenti di saper sfornare opere originali, mature, talvolta bizzarre, che testimoniano una vitalità artistica e una creatività fuori dagli schemi. Sembrano essersene accorti persino i distributori italiani. Ed è così che, per merito della P.F.A. Films, l’Islanda ha ora messo a segno un’insolita “doppietta”, facendo approdare nelle nostre sale anche Storie di uomini e di cavalli (titolo internazionale “Of Horses and Men”), lungometraggio d’esordio di Benedikt Erlingsson che finora era noto in patria soprattutto per le sue regie teatrali.
Prodotto da Friðrik Þór Friðriksson, uno dei più grandi registi islandesi (che condivide peraltro con il discepolo Benedikt Erlingsson il privilegio di essere comparso come attore in un film di Lars Von Trier, la sulfurea commedia Il grande capo), Storie di uomini e di cavalli è un film per certi versi sconcertante, che offre sbocchi impensabili e infarciti di uno black humor a tratti geniale alle stralunate vicende di cui è protagonista una piccola comunità islandese, i cui abitanti ora passionali e ora tristemente repressi sembrano aver intrecciato, tra loro e – soprattutto – coi propri cavalli, rapporti oltremodo simbiotici; relazioni fatte di amore e morte, di affetti morbosi e di gelosie risolte a colpi di fucile, per cui in quest’ottica distorta, grottesca, voyeuristica, l’elemento umano e quello equino finiscono per compenetrarsi (termine che in una delle scene più “pulp” assume una dimensione così letterale da lasciare sbalorditi) senza soluzione di continuità.
Nell’aneddotica genuinamente folle di Storie di uomini e di cavalli c’è gente capace di montare a cavallo e tuffarsi assieme al destriero nelle gelide correnti artiche, solo per raggiungere una nave russa carica di vodka, così come c’è gente capace di andare in paranoia e sentirsi ferita nell’onore, allorché la propria amata giumenta resta coinvolta nell’accoppiamento imprevisto con un imperioso stallone. In uno stato che alleva il pony islandese considerandolo motivo di vanto e al contempo attrazione turistica, con di mezzo una troupe i cui componenti hanno dichiarato più volte di essere in gran parte appassionati di cavalli ed esperti fantini (quanto di efferato si vede è solo finzione scenica, pertanto ci tengono ad assicurare che nessun animale ha subito abusi), il lungometraggio diretto da Benedikt Erlingsson assolve bene alla sua funzione satirica, proponendosi come divertissement autoriale dall’impronta euforica e gioiosamente (per quanto crudelmente, alla bisogna) naif.
Stefano Coccia