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Stone Turtle

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VOTO: 8

L’isola delle tartarughe, dei fantasmi e degli ospiti indesiderati

La quarta edizione di Oltre lo specchio è stata l’occasione per recuperare un’altro film della stagione del quale si era sentito parlare un gran bene e che chi come noi non aveva assistito all’anteprima mondiale al 76° Festival di Locarno, laddove era in concorso e dove si è aggiudicato il Premio FIPRESCI, difficilmente avrebbe avuto la possibilità di incrociarlo nuovamente. Pellicole come Stone Turtle, provenienti da cinematografie semi-sconosciute in Italia come quella malese, purtroppo solo di rado trovano una distribuzione nelle sale nostrane. Quindi opportunità come quella offerta dalla kermesse milanese vanno colte al balzo e noi non ce la siamo fatta sfuggire.
Quello al quale abbiamo assistito è un film potente che usa i codici del genere, nello specifico quelli della ghost story e del classico rape & revenge, per toccare tematiche dal peso specifico rilevante e drammaticamente attuali. In un’incantevole cornice paradisiaca, la tragedia della violenza si consuma senza testimoni. A farne le spese Zahara, una rifugiata apolide, che vive in una remota isola della Malesia, dove sopravvive vendendo uova di tartaruga nel mercato nero. Quando Samad, un ricercatore universitario, arriva sull’isola in cerca di una guida, i due si ritrovano intrappolati in una pericolosa danza spazio-temporale.
La pellicola diretta da Ming Jing Woo, autore già apprezzato con i lavori precedenti a Venezia, alla Berlinale e a Cannes, ci regala un viaggio nel tempo all’insegna della tensione crescente, che ha il suo picco in un epilogo che si tinge di sangue. Il cineasta malese, qui alla dodicesima fatica dietro la macchina da presa, affronta a suo modo e con coraggio da vendere argomentazioni scottanti come la violenza di genere e la complessa condizione dei richiedenti asilo politico nel mondo. Zahara, interpretata da un’intensa Asmara Abigail, è per lo Stato che la “ospita” nient’altro che un fantasma che vaga su un’isola deserta. Il ché sposta il discorso e il racconto su un piano astratto e metaforico, che una battuta pronunciata dalla protagonista sottolinea con decisione: “preferisco essere viva in un’isola di fantasmi, che essere un fantasma in una terra di vivi”. Con questi fendenti scagliati con decisione contro lo schermo con una rabbia destinata a implodere, Stone Turtle affonda la lama nella coscienza collettiva, lasciando una ferita profonda nello spettatore.
Ming Jing Woo, con la complicità in fase di scrittura del co-sceneggiatore Neesa Jamal, firma un affresco di dolore, violenza e vendetta che rilegge il mito per parlare del presente. Per farlo si affida a un narrazione non lineare che va in frantumi quando inizia a lavorare sulla contrapposizione tra sogno, realtà e immaginazione, oltre che su piani temporali che si alternano e sovrappongono. Con e attraverso di questi, il cineasta malese riscrive per quattro volte la storia mediante variazioni, capovolgimenti e cambi di posizioni dominanti. Il risultato è un valzer di doppi e inganni che rende la fruizione imprevedibile e coinvolgente, con lo spettatore che è chiamato a mettere insieme i pezzi del puzzle narrativo per avere finalmente un quadro più chiaro e la verità su quanto accaduto.

Francesco Del Grosso

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