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Sport

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VOTO: 5.5

Insieme, ma divisi

Un grande merito, la docufiction sui generis intitolata Sport, presentata nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2015, indubbiamente ce l’ha. Ed è quello di essere stata coprodotta congiuntamente da Israele e Palestina, assieme alla Francia. Per quanto riguarda l’esito artistico, invece, il risultato è piuttosto diseguale e discutibile, anche perché sono ben cinque i cortometraggi – documentari e di finzione – che la compongono. Premettiamo subito che lo sport, inteso come ragione di vita, risalta in misura assai maggiore nei segmenti a carattere documentaristico. Nel primo, intitolato Blue Eagles, si racconta la storia della più forte squadra calcistica palestinese di club – usiamo termini convenzionali: come ovvio purtroppo non possono esserci paragoni con le strutture calcistiche occidentali – messa su ad organizzazione completamente famigliare ed ereditaria, con i figli a prendere il posto dei padri quando quest’ultimi abbandonano lo sport attivo. Il regista Ahmad Barghouthi ci accompagna, con semplicità di mezzi, alla scoperta di un mondo in cui il calcio è ancora visto, pur tra le mille difficoltà del contesto, come una passione da vivere gioiosamente. Diciotto minuti che dovrebbero far riflettere i curvaroli nostrani, buona parte dei quali strumentalizza la partita per tutt’altri motivi. Anche il segmento, il terzo, intitolato Wourod – dal nome appunto di Wourod Sawalha, che gli appassionati ricorderanno come la prima atleta palestinese a partecipare alle Olimpiadi, a Londra 2012 negli 800 metri – sempre diretto da Barghouti, racconta in maniera abbastanza convenzionale ma efficace la vita quotidiana di una donna che ha scelto di praticare atletica leggera in un paese privo di alcun supporto logistico. Ma in compenso ricco di pregiudizi sul ruolo della componente femminile nella società. Molto simpatico l’incontro con la campionessa statunitense Jackie Joyner Kersee, in visita benefica in Palestina per incontrare ragazze animate dalla più pura e semplice passione per lo sport. E le interviste fanno notare il ruolo di traino che la popolarità di Wourod, giovane riservata ma sempre disponibile, sta compiendo nel proprio paese.
Le dolenti note arrivano con i due corti di fiction firmati da registi israeliani. Nel secondo – Ziva and Amal, diretto da Tal Oved – ambientato in un carcere femminile, si mette in scena il rapporto tra le due detenute del titolo. In assoluto l’episodio pare un pesce fuor d’acqua nel contesto, poiché di sport non c’è nemmeno l’ombra; a meno che non si voglia considerare tale il corso di yoga che le due frequentano in carcere. Liti e diatribe tra la iraconda Ziva (israeliana) e la pacata Amal (araba), con la seconda in procinto di uscire per fine pena che rinfaccia all’altra un furto che potrebbe ritardare la sua liberazione. Finisce più o meno a tarallucci e vino, ma l’interesse per la vicenda è svanito dopo pochi istanti. Anche il quarto – Just a Man di Lily Sheffy Rize – lascia molto a desiderare, pur riconoscendogli un sincero spirito di denuncia. Tre poliziotti israeliani, non si comprende bene il motivo, devono riportare un palestinese gravemente ferito a casa propria. Sullo sfondo si gioca un’importante partita di calcio, a cui due dei poliziotti vorrebbero a tutti i costi assistere poiché in possesso del biglietto. Nessuno però si assume la responsabilità di prendere in consegna l’uomo, trattato alla stregua di un vuoto a perdere anche dai connazionali. I poliziotti innervositi, alla fine, lo abbandonano sul ciglio di una strada, dove verrà trovato cadavere due giorni più tardi. Se lo scopo era quello di dimostrare quanto poco conti la vita umana da quelle parti, forse sarebbero esistiti mezzi meno scontati, pur nella tragicità di un fatto realmente accaduto, per raccontarlo. Una didascalia avverte che i tre poliziotti, due uomini e una donna, sono stati poi condannati a trenta mesi di reclusione. Ad occhio un po’ pochini.
Anche l’ultimo, Jisr Boys di Matan Gur, poco o nulla aggiunge all’insieme. Due ragazzi arabi in terra israeliana con la passione del surf dimenticano la propria condizione difficile cavalcando le onde. Semplicemente un utile excursus sulla differente condizione degli arabi, “ospiti” in una terra non loro. Magari la prossima operazione – meritoria a prescindere, produttivamente parlando – del genere potrebbe raccontare anche qualche episodio di integrazione, tanto per spargere un minimo di speranza in luoghi dove ce n’è tremendamente bisogno. Dato che la cronaca fa notizia solo con violenza e morti, il cinema potrebbe benissimo prendersene carico…

Daniele De Angelis

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