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Snow

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VOTO: 6.5

Sporchi affari di famiglia

Era più che legittimo che nei confronti di uno come Ventsislav Vasilev, che tanto aveva impressionato in passato nelle vesti di cortista (Rust) e sceneggiatore di pluri-premiati lungometraggi (tra cui Plan for Revenge o Rat Poison), il pubblico e gli addetti ai lavori nutrissero una certa attesa, mista a fiducia. Prima o poi, anche per lui, sarebbe venuto il momento di provare la prima esperienza sulla lunga distanza, per confermare quanto di buono fatto in precedenza o nella peggiore delle ipotesi di vanificarlo. Ebbene quel momento è finalmente arrivato e l’occasione di soddisfare la nostra curiosità a riguardo si è presentata durante la 14esima edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, dove la sua opera prima dal titolo Snow è stata selezionata nella rosa delle sei pellicole in concorso.
La pellicola ci porta al seguito di due fratelli, Lyubaka e Gosho, che decidono di rapinare un ufficio postale insieme ai loro due figli, Bobby e Marti. Dopo la rapina, però, Lyubaka scappa con i soldi ma ben presto ne viene ritrovato il corpo senza vita mentre il bottino che aveva con sé sembra sparito senza lasciare traccia. Gli altri faranno tutto il possibile per ritrovare rapidamente il denaro scomparso, mentre Bobby vuole anche scoprire la verità sulla morte del padre e sarà costretto a ricordare alcuni momenti della sua triste infanzia. E’ infatti in quei ricordi che dovrà cercare la causa dei complessi rapporti che si sono instaurati fra i quattro uomini. Quando i ricordi del ragazzo inizieranno ad acquisire un significato nuovo e a combaciare come i pezzi smarriti di un vecchio puzzle, Bobby scoprirà una terrificante verità di fronte alla quale dovrà scegliere se perdonare o vendicarsi della morte del padre.
Il regista bulgaro firma un dramma che assomiglia strada facendo a una sorta di thriller dell’anima, nel quale trovano spazio tematiche rilevanti di natura antropica e ancestrale, che in qualche modo riportano per certi versi al biblico racconto di Caino e Abele. Ci troviamo calati in una realtà dura e senza scampo, dove i legami di sangue vengono infettati dallo spietato Dio Denaro e dall’altrettanto spietata lotta per la sopravvivenza in un contesto di malavita vecchio stampo che riconduce direttamente a quella che agiva indisturbata nei regimi dell’Est.
Insomma, quelle che reggono l’architettura dello script di Snow sono, almeno sulla carta, delle basi sufficientemente intriganti da attirare su di sé le attenzioni del pubblico.  A conti fatti, però, il film non riesce a soddisfare tutte le attese, ma nemmeno le delude totalmente. Da una parte, nel proprio bagaglio personale, ha una serie di elementi drammaturgici molto interessanti che alzano l’asticella oltre la sufficienza, a cominciare dal disegno tridimensionale dei personaggi, che li rende abbastanza complessi da dare quella dose di spessore in più a un plot altrimenti bloccato da ripetuti e ciclici punti di stallo. Sono loro, con i rispettivi sviluppi umani e relazionali all’interno dell’arco narrativo, a rappresentare il motore e le colonne portanti del racconto. Sono loro a farsi carico del peso drammaturgico, andando a riempire, tutte le volte che gli è possibile, quelle mancanze e qui giri a vuoto che indeboliscono la timeline e di conseguenza l’intera fruizione. Forti sono, infatti, i conflitti e le dinamiche generazionali tra i personaggi, non altrettanto le azioni delle quali si rendono partecipi al di fuori da queste. In tal senso, lo script di Snow mostra allo spettatore di turno il suo lato migliore solo quando entra nel vivo dei conflitti familiari tra padri e figli, tra padri e padri e tra figli e figli. Ciò si verifica soprattutto negli efficaci trenta minuti iniziali, nei quali si materializzano e prendono forma sullo schermo le linee guida del racconto e gli identikit dei quattro protagonisti, passando attraverso dei jump cut temporali tra presente e passato ben concatenati che danno alla narrazione il giusto ritmo. Poi, quando il ritmo inizia a dilatarsi e con esso anche la frammentazione temporale, gradualmente il racconto perde potenza e a risentirne in primis sono coloro che lo popolano dall’interno. Davvero un gran peccato.

Francesco Del Grosso

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