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Non si ruba a casa dei ladri

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VOTO: 4.5

Quant’è difficile ottenere giustizia in Italia!    

L’Italia e la crisi economica. L’eterna lotta tra i lavoratori e la classe dirigente. L’atavico problema delle raccomandazioni. Sono argomenti, questi, su cui non si finirebbe mai di discutere. Oppure, al contrario, di cui ormai siamo stanchi di parlare. Dipende dai punti di vista. Fatto sta che tali tematiche sono state affrontate da Carlo ed Enrico Vanzina nella loro ultima commedia, Non si ruba a casa dei ladri, in cui, appunto, vengono raccontate le vicende di un dirigente d’azienda a cui viene tolto un appalto per dare la precedenza a chi ha “santi in paradiso”.
Antonio dirige una ditta di pulizie. A causa di un dirigente disonesto che preferisce dare un importante appalto ad un’altra ditta, l’uomo fallisce miseramente, ma non si perde d’animo: con la moglie, infatti, deciderà di andare a lavorare come domestico a casa di chi gli ha procurato il danno, al fine di smascherare i suoi intrallazzi e di rubargli l’ingente somma di denaro depositata presso una banca svizzera.
Ci risiamo. Ancora una volta, Carlo Vanzina – come sempre collaborando con il fratello Enrico, a cui è affidata la sceneggiatura – vuol creare una commedia “di denuncia”, in cui, in questo caso, viene aperto un discorso sul funzionamento della giustizia in Italia e sugli interminabili iter burocratici ad essa correlati. Con questo intento, però, è venuto alla luce un lungometraggio ricco di stereotipi e luoghi comuni che, di fatto, contiene ben poca sostanza. Stessa storia di sempre, a quanto pare. Solo che questa volta si intravede, se vogliamo – più che una bieca furbizia – quasi una certa ingenuità alla base di tutto. Nonostante, appunto, l’idea di denunciare un mondo ingiusto in cui sono i più deboli a pagare il prezzo, piuttosto debole è il risultato finale, colpa non solo – come già abbiamo detto – della carrellata di luoghi comuni presentataci fin dall’inizio, ma anche di uno script ricco di incongruenze, che – al fine di gettare a tutti i costi le basi per dare avvio alla vicenda – finisce irrimediabilmente per far acqua da tutte le parti.
Poco credibile, ad esempio, è il fatto che Antonio – il protagonista, appunto – non si accorge che il suo nuovo datore di lavoro è proprio l’uomo che l’ha messo nei guai (fino a prova contraria, quando viene negato un appalto, sui relativi documenti c’è sempre la firma di chi ha preso tale decisione), così come non regge l’espediente di far fare, alla fine, solo due anni di galera – malgrado truffe e magheggi vari – all’eterno rivale di Antonio. Senza parlare, poi, di quando i due protagonisti decidono di organizzare una truffa alla American Hustle di David O. Russell (peraltro citato nel corso del film). Quello che viene fuori è un tentativo maldestro di creare, in qualche modo, suspense, senza però riuscirci davvero, con dei risvolti del tutto prevedibili e, se vogliamo, parecchio buonisti. Perché uno dei problemi di Non si ruba a casa dei ladri – come spesso capita in tutte le commedie dei Vanzina – è proprio il buonismo di fondo (condito, ovviamente, da una buona dose di stereotipi, oltre che da qualche battutina prevedibile e qualche donna nuda qua e là), il quale risulta decisamente poco credibile. A tal fine, in questo caso è stato scomodato nientemeno che Giovenale, una delle cui frasi – “A Roma tutto ha un prezzo” – è stata usata come didascalia alla fine del film.
Nulla da dire – sia ben chiaro – sulle prestazioni attoriali di alcuni interpreti in particolare (soprattutto Vincenzo Salemme, Maurizio Mattioli e Stefania Rocca sono stati piuttosto convincenti), eppure i personaggi qui presentati sono gli stessi che abbiamo visto in decine di altri film: i cafoni arricchiti, i lavoratori del sud che cercano di rivendicare i propri diritti e che si scontrano con gli imprenditori del nord, donne bellissime che pensano solo ai soldi, eccetera eccetera).
Eppure, come già è stato detto, Non si ruba a casa dei ladri – forse perché un certo tipo di cinema ci ha preso talmente tanto per stanchezza e ci è stato presentato così tante volte – non fa altro che tenerezza, se lo si guarda con un certo distacco. Un film di Carlo ed Enrico Vanzina, in poche parole. Una cinematografia che, nonostante tutto, risulta comunque meno irritante di quella del collega Neri Parenti o di qualche altro nome della commedia italiana da “fast food” che tanto successo sembra avere ai giorni nostri.

Marina Pavido

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