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Sin City 2 – Una donna per cui uccidere

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VOTO: 7.5

Sei personaggi in cerca di vendetta

Non c’è due senza 3D verrebbe da dire pensando al tanto atteso ritorno sul grande schermo di Sin City, dove il primo sta a indicare il capitolo e il secondo la scelta da parte degli autori di avvalersi della ripresa stereoscopica. A nove anni di distanza dalla fortunata trasposizione del celebre graphic novel di Frank Miller, pubblicato nell’ormai lontano 1991, arriva nelle sale nostrane con Key Films, a partire dal 2 ottobre, un nuovo atto cinematografico che dovrebbe placare la fame dei milioni di fan a tutte le latitudini, ma che a differenza del precedente non soddisfa in pieno i palati degli addetti ai lavori.
Se da una parte i tassi di spettacolarità e cura estetico-formale della confezione aumentano in maniera esponenziale grazie all’introduzione del già citato 3D, dall’altra l’efficacia della componente drammaturgica viene meno rispetto a quella che animava la pellicola del 2005.  L’equilibrio tra scrittura e messa in quadro che aveva permesso al film di Rodriguez e Miller (con special guest director di Tarantino) di mettere d’accordo tutti, stavolta non prende forma, lasciando che il piatto della bilancia a pendere di più sia proprio il secondo.
La coppia di registi mantiene intatta l’architettura del racconto, con tre storie principali ambientate nel ventre marcio, infetto e corrotto di Basin City che, scorrendo parallelamente, finiscono con l’entrare in rotta di collisione. Storie, queste, popolate da personaggi in cerca di vendetta che si lasciano dietro lunghe scie di sangue e piombo, tra prostitute armate sino ai denti, femme fatale, poliziotti collusi, killer letali e politici corrotti, che si materializzano sullo schermo attraverso le voci e i corpi di new entry e vecchie conoscenze. Incastri e intrecci sono ancora una volta gli ingredienti base del plot, in un corpus narrativo fatto di dinamiche inedite mescolate con rimembranze, riferimenti e rimandi al primo capitolo.
Diversamente dall’opera precedente, il cui script si nutriva di eventi presi in prestito qua e là dal graphic novel, qui a costituire il baricentro è una sola pubblicazione, proprio quel “Una donna per cui uccidere” che offre al secondo film della serie il titolo che lo accompagna nelle sale. Nonostante ci sia un’unica provenienza a fronte di una pluralità, l’alternanza e il palleggio tra i tre macro blocchi non sono fluidi, ma piuttosto meccanici. Fluidità che, al contrario, si era rivelata la costola dura del primo Sin City, ma che nel secondo si smarrisce anche a causa della pochezza drammaturgica di una delle tre storie, ossia quella che vede al centro della trama il giovane e presuntuoso giocatore d’azzardo di nome Johnny.  Ci si trova così al cospetto di una frammentarietà discontinua che nemmeno il ritmo martellante della messa in quadro e del montaggio riescono a tamponare. Non mancano le trovate e i guizzi, così come le scene che da sole valgono il prezzo del biglietto (il brutale corpo a corpo tra Marv e Manute, il bagno in piscina di Ava), ma il tutto permette all’operazione di guadagnare un buon voto in pagella e non di più.
Ciò consente al film, nonostante le pecche riscontrabili nello script, di non smarrire quanto di straordinario aveva consegnato alle platee nove anni or sono il precedente capitolo, regalando nuovamente a queste un noir iperrealistico e ipercitazionista, impregnato di sesso e di una violenza fine a se stessa, isterica e ridondante, con un frullato di ossa rotte, cornee cavate e arti mozzati, unito a chiari rimandi al polar e all’hard boiled, in cui Rodriguez continua saggiamente ad assecondare e valorizzare la potenza immaginifica delle straordinarie tavole firmate da Miller. Tavole che si tramutano in fotogrammi caratterizzati dalla medesima essenzialità nel tratto, impresse con un bianco e nero carico di disperazione, sporcato di colore da spruzzi di sangue, lampi di fuoco e bagliori di luce isolati, con un 3D che ne esplora le geometriche linee prospettiche.   La fedeltà assoluta al  progetto estetico globale nativo, così come avvenuto nel 2005, rende Sin City – Una donna per cui uccidere qualcosa di più di un semplice adattamento, qualcosa di più dell’ennesimo cinecomics dove il regista e gli sceneggiatori di turno interpretano le intenzioni trasposte su carta dal suo creatore. Il segreto risiede, quindi, nel fatto che il regista texano ha trasposto la visione e lo stile del disegnatore (Miller), l’ha voluto registicamente al suo fianco dietro la macchina da presa, e almeno dal punto di vista visivo il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Francesco Del Grosso

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