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La preda perfetta

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VOTO: 6.5

Una spericolata redenzione

Prima sorpresa: Liam Neeson dimostra nuovamente di saper recitare in un film di genere, una volta smessi i panni dell’ammazza-albanesi che hanno caratterizzato il suo personaggio nei primi due Taken e rischiavano di confinarlo vita natural durante nella maschera del Charles Bronson in sedicesimo. Intendiamoci, la saga miliardaria di Taken continuerà, con il terzo capitolo in arrivo. Però, quantomeno intervallare interpretazioni di differente spessore ci sembra un aspetto indubbiamente positivo. Seconda sorpresa: il film in questione, La preda perfetta (da preferire di gran lunga il titolo originale A Walk Among the Tombstones, cioè una passeggiata tra le lapidi, assai più significativo ed evocativo) è un’opera chiaramente in controtendenza rispetto ai canoni del cinema contemporaneo. Innanzitutto perché ripercorre gli antichi sentieri del noir, citando esplicitamente il buon vecchio Philip Marlowe chandleriano – il mestiere del personaggio interpretato da Neeson è il medesimo, il detective privato – e soprattutto prendendosi, dal punto di vista narrativo, tutti i suoi tempi. Forse persino troppi, dato che la trama, dopo un folgorante prologo, ci mette diversi minuti di troppo prima di prendere una direzione ben definita. Molto probabile che Scott Frank, regista e sceneggiatore – ma ben più conosciuto per questa seconda mansione, basti ricordare gli script di Minority Report nel bene e Io & Marley nel meno bene – abbia attuato volutamente una dilatazione temporale del plot al fine di concedere il massimo respiro possibile al personaggio principale, un ex poliziotto alcolizzato tormentato dai sensi di colpa. Ed in effetti un uso sapiente del flashback lascia intuire assai bene quale possa essere stato il calvario di Matt Scudder, “auto-retrocesso” otto prima da valente sbirro a occhio privato perdipiù privo di licenza ufficiale dopo aver involontariamente causato la morte di una ragazzina nel corso di una sparatoria effettuata non da sobrio a seguito di una rapina. Comunque sia, l’occasione del riscatto finalmente arriva quando due balordi psicotici rapiscono a scopo di riscatto donne più o meno giovani legate da vincolo di parentela a uomini legati al traffico di droga, seviziandole e, una volta entrati in possesso del denaro, uccidendole barbaramente.
Se lo svelamento progressivo degli intrighi che si celano dietro l’indagine, da sempre caratteristica principale del genere di riferimento, ed un accurato raggiungimento del climax rappresentano senza dubbio il punto di forza de La preda perfetta, convincono meno alcuni personaggi, tipo l’immancabile ragazzino sveglio e petulante messo lì apposta sia per sdrammatizzare un tono generale che gradatamente dal noir finisce con lo scivolare nel thriller sull’inimitabile modello de Il silenzio degli innocenti e soprattutto per rinvigorire i classici istinti paterni repressi del personaggio di Neeson, da antica tradizione solitario e un po’ figlio di puttana. Se poi ci aggiungiamo che il piccoletto è pure di colore (in nome del politically correct) e orfano, la sensazione di meccanicità pianificata a tavolino aumenta il fastidio. Anche se, al tirar delle somme, una parte finale in cui vengono mescolate discretamente bene componenti emozionali differenti come adrenalina e sentimento fa perdonare al film difetti in assoluto non certo trascurabili.
Insomma, non diventerà certo un classico questo La preda perfetta. E tuttavia la visione offre allo spettatore una piacevole sensazione anacronistica, come fosse un oggetto cinematografico fuori dal tempo e difficilmente collocabile nel presente in primis per la propria propensione a rifiutare la facile scorciatoia della spettacolarizzazione della violenza, prendendo in prestito stilemi, che oseremmo definire riflessivi, appartenenti ad un’altra epoca della Settima Arte. Quando al cinema si andava con lo spirito ingenuo di potersi e volersi identificare al massimo grado con storie e personaggi, abbandonandosi piacevolmente per un paio d’ore ad una realtà fittizia che in quel momento sembrava essere patrimonio comune. Esattamente quello che accade con la parabola esistenziale di Matt Scudder/Liam Neeson, buon diavolo alla disperata ricerca di una redenzione di celluloide tutt’altro che impossibile. Come conveniva a certo cinema di una volta, senza troppi voli pindarici ma con qualcosa da dire e da lasciare agli spettatori dopo la proiezione.

Daniele De Angelis

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