Il mio nome è Holmes, Sherlock Holmes
Il primo romanzo della saga di Sherlock Holmes, scritto da Sir Arthur Ignatius Conan Doyle e pubblicato nel 1887, si intitolava “Uno studio in rosso”.
E dall’inizio scelgono di partire i due showrunner della serie BBC, Sherlock, Steven Moffat e Mark Gatiss (impegnato anche nel ruolo del fratello maggiore di Sherlock, Mycroft Holmes), quando decidono di riscrivere in chiave contemporanea – fa eccezione parziale il brillante divertissement, “The Abominable Bride” – le avventure del più celebre consulente investigativo della storia della letteratura, non solo britannica.
Senza particolare cura per la verosimiglianza dei casi – del resto le stesse capacità deduttive del detective sono sovrumane e difficilmente qualcuno “resuscita” – al centro delle vicende, narrate dalla serie – fino a ora si tratta di quattro stagioni da tre episodi ciascuna più una puntata speciale, ma una quinta stagione dovrebbe essere in programma per il futuro – ci sono, ça va sans dire, Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) e il sodale, dottor John Watson (Martin Freeman), residenti naturalmente al civico 221B di Baker Street .
Il gioco è allo stesso tempo semplice – concettualmente, niente affatto invece a livello narrativo – e affascinante: ogni racconto classico, a partire dal titolo, è stato rimodellato sulla base di istanze, prospettive, tecnologie che caratterizzano il “nostro” mondo, senza però rinunciare alle peculiarità e allo spirito profondo di quelle vecchie, solo anagraficamente, storie gialle.
Da una parte abbiamo quindi una specie di Icaro che a un certo punto, come il Sigfrido della mitologia norrena, scopre la paura (precisamente ne “I mastini di Barkerville”), ma non rinuncia a volare verso il sole (“the game is on”, only a game), ma anche un Prometeo egoista e narciso: graziato dal fuoco di un intelletto pressoché divino, non lo condivide con gli altri uomini, ma ne fa spocchioso, benché simpatico, a dire il vero, sfoggio. E’ interessante davvero, questo Sherlock dai tratti superomistici – e originariamente la caratteristica non deve sorprendere poiché le teorizzazioni di Nietzsche sono storicamente sovrapponibili alla produzione di Conan Doyle – e allo stesso tempo figura quanto mai fragile, vittima di una nevrosi che rimanda più ad Alice Miller che a Freud.
Dall’altra troviamo un uomo ordinario capace, proprio in virtù della propria umanità, del proprio senso di empatia, della propria capacità di provare compassione, di azioni straordinarie. E, si badi, l’ordinarietà non riduce né il personaggio né le qualità di Martin Freeman, la cui abilità nel tracciare ciò che è “normale”, in contrapposizione alla straordinarietà dell’amico, è struggente e tecnicamente calibrata fino ad una perfezione interpretativa che, non di rado, commuove.
L’utilizzo che Moffat e Gatiss fanno dei fab two è infatti, da questo punto di vista, encomiabile: senza dimenticare la storia, cardine primo e non trascurabile in favore di strizzate d’occhio che altrove abbondano, i due creatori lasciano che i loro attori fondano la precisione tecnica con qualcosa che sembra sfiorare l’improvvisazione. Funziona, come un esempio lampante, il secondo episodio della terza stagione, sfoggio generoso di private jokes e di talento, come pure la scena della season four in cui Sherlock, furioso e alterato dalle droghe, recita forsennatamente parte del più celebre monologo dell’”Enrico V” di Shakespeare. Ed è difficile, davvero difficile, non scattare in piedi in un applauso spontaneo che non è più per l’arguzia sopraffina del detective, ma per il suo straordinario interprete, senza tuttavia che la sospensione ci abbandoni al crudo realismo della scena fittizia.
Sherlock è l’eroe, una sorta di Bond dell’intelletto, con la licenza, non di uccidere, ma di dedurre l’indeducibile, John Watson è invece l’uomo del racconto, colui che ri-forgia le imprese investigative con il potere dell’immaginazione. Lontano dall’animo titanico di Don Chisciotte, di Amleto o di Achab, la figura di Watson, qui medico reduce dall’Afganistan e in seguito collaboratore di Holmes e blogger, rivela aspetti interessanti che sono insiti proprio nella sua natura particolare di dramaturg intradiegetico. John ammanta infatti l’eroismo moderno, o post-moderno, di Holmes di una sorta – il salto semantico è forte, ma il concetto può comunque, in qualche modo, adattarsi per analogia – di areté in accezione omerica, aggiornata ai tempi del divismo: il detective di Baker Street non soltanto eccelle per le sue capacità intellettive, ma viene ri-conosciuto, grazie ai resoconti, anche fantasiosi, del dottore, come eccellente.
Ma se i protagonisti sono, senza dubbio, come sottolineato poc’anzi, due uomini – più la nemesi di Sherlock, Moriarty (Andrew Scott) – le coscienze motrici del racconto sembrano essere due donne, anch’esse diversissime fra loro: Mary Morstan (Amanda Abbington), spia e assassina, prima di essere la simpatica moglie del dottore, e Eurus Holmes (Sian Brooke), sorella minore di Sherlock e Mycroft, che appare inaspetattamente nell’ultimo episodio della quarta stagione e porta a compimento la trasformazione in atto, sconvolgendo i piani, soprattutto emotivi, come una fredda folata dall’est (nomen omen).
È proprio attraverso un processo che riporta alla superficie il rimosso di quasi tutta una vita che Sherlock, libero dai propri fantasmi infantili e dalle bugie protettive del fratello maggiore (il travestimento da Lady Bracknell e la citazione da Wilde – la verità è raramente pura, e mai semplice – affatto casuali, ovviamente), diventa in tutto e per tutto un essere umano. Anzi, come precisa l’ispettore Lestrade, finalmente chiamato, anche da Holmes, con il nome proprio corretto, Greg, un brav’uomo.
Da quella che sembra una sorta di terapia psicanalitica d’urto, mascherata da gioco horror, Sherlock emerge non più come un semidio che, in virtù di una ybris tanto sconfinata quanto alienante, crea, distrugge o garantisce protezione da ogni male, ma come un uomo fallibile che abbraccia, comprende e ama.
Vicino a lui, fino alla fine, come sempre, e ancora di più, forse, ormai come coppia di fatto con tanto di pargoletta da allevare, il sodale John Watson, colui che, come un bambino, come un lettore/spettatore, soltanto un paio di stagioni prima chiedeva, in lacrime, un atto di generosità narrativa: “ti prego, smetti di essere morto”.
È l’ormai defunta Mary a desecretare, in un messaggio video, contenuto all’interno di un cd-rom, l’ovvio futuro dei due, sul finire della quarta stagione, splendida, estremamente matura: ancora una volta insieme, per sempre insieme, giovani, straordinari ed eterni come una (bella) storia.
Ilaria Mainardi