Tutte per una e una per tutte
Le evoluzioni tecnologiche registrate nel campo della computer grafica, unite a qualche sano vecchio trucco del mestiere tramandato nei decenni, hanno permesso ad attori e ad attrice di tutte le latitudini di moltiplicarsi sullo schermo e di vestire più panni contemporaneamente. La lista, in tal senso, è piuttosto ricca di esperienze filmiche e in essa figurano tra gli altri, oltre all’Antonio Banderas di Two Much, al Nicolas Cage di Adaptation, al Jean-Claude Van Damme di Maximum Risk, all’Hugo Weaving della trilogia di Matrix e al Michael Keaton di Multiplicity, persino il Renato Pozzetto di È arrivato mio fratello. Miracoli della Settima Arte.
Nel caso dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Tommy Wirkola, nelle sale italiane dal 30 novembre distribuito da Koch Media dopo le precedenti apparizioni alle recenti edizioni dei Festival di Locarno (Piazza Grande) e Torino (Festa Mobile), il processo di moltiplicazione dell’interprete di turno arriva addirittura quota 7, per la precisione a 7 + 1 se si conta la personalità comune utilizzata dalle protagoniste per affrontare il mondo esterno. Ad affrontare questo autentico tour de force attoriale, che determina una crescita esponenziale dell’impegno sul set, troviamo la sempre più gettonata Noomi Rapace, che in Seven Sisters ha prestato corpo e voce a sette sorelle gemelle: sette personaggi con personalità, caratterizzazioni e sfumature molto distinte.
La performance dell’attrice scandinava è per quanto ci riguarda, a conti fatti, uno degli aspetti positivi, insieme alla regia di Wirkola, di un’operazione che presenta delle crepe nella scrittura. Queste appaiono soprattutto dalla seconda parte in poi della timeline, quando in essa si materializzano fragilità strutturali e sviluppi narrativi fin troppo facili e approssimativi rispetto al potenziale intrinseco e alle vere esigenze del racconto. Probabilmente senza il loro apporto l’operazione sarebbe andata incontro ad altre problematiche, perdendo quelle basi solide che le interpretazioni della Rapace e la messa in quadro di Wirkola hanno garantito al risultato finale. E pensare che la sceneggiatura originale concepita nel 2001 dallo sceneggiatore Max Botkin, entrata nella black list delle migliori non prodotte, prevedeva sette fratelli invece che sorelle. Per fortuna, quando il cineasta norvegese si è unito al progetto, ha deciso di traslare la storia al femminile e di contattare la connazionale per il ruolo. Da una parte l’attrice firma una serie di interpretazioni coinvolgenti e variegate, che ribadiscono la sua bravura, mettendone in risalto la fisicità e le sfumature caratteriali dettate dai disegni opposti dei personaggi a lei affidati. Dall’altra il cineasta norvegese dimostra ancora una volta il suo straordinario talento visivo, già ampiamente espresso ai tempi dell’ormai cult Dead Snow. E a godere di queste performance è in primis il film e con esso gli spettatori che lo andranno a vedere.
Siamo in un futuro tetro e dispotico. L’aumento incontrollato della natalità ha costretto i governi a mettere in atto una drastica politica del figlio unico, decisa dal Bureau per il controllo delle nascite, diretto dalla dottoressa Cayman. Politica che impone l’ibernazione dei figli in eccesso. Una donna muore durante il parto di sette gemelle, e per salvarle tutte il nonno le nasconde chiamandole Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì, Sabato e Domenica. Ognuna potrà uscire di casa solo nel giorno della settimana corrispondente al proprio nome con l’identità di Karen Settman e il divieto assoluto di rivelare il segreto di famiglia. Nascoste per sei giorni a settimana, le sette sorelle sono libere di essere loro stesse solo nella prigione dell’appartamento in cui vivono. Tutto procede fino a che, un giorno, Lunedì non fa più ritorno a casa…
La battaglia quotidiana per sopravvivere darà vita a un fanta-action dalle venature mistery, dove la confezione e una manciata di sequenze cinetiche di grande efficacia (vedi la prima irruzione degli agenti del Bureau nell’appartamento, la sparatoria con il cecchino a casa di Jerry e il pirotecnico epilogo nel comando generale del C.A.B.), coprono in parte le mancanze e i limiti della scrittura. Quest’ultimi lasciano l’amaro in bocca, perché la storia, l’ambientazione e le potenziali implicazioni socio-politiche (inespresse), potevano stratificare e rinforzare lo script. Peccato.
Francesco Del Grosso