Siamo tutti nella melma
Di creature mostruose e geneticamente modificate, di specie sconosciute o conosciute e temute dall’essere umano, al cinema se ne sono viste a migliaia, di tutte le dimensioni e dal livello di ferocia e aggressività più o meno elevato. Alcune di esse sono persino entrate nell’immaginario della Settima Arte, elevando in maniera esponenziale il timore reverenziale nei loro confronti. Questo le ha portate ad assumere piuttosto velocemente, pellicola dopo pellicola, lo status di predatore o cacciatore, relegando di conseguenza l’essere umano al ruolo di preda. Viene da sé che le lotte tra le due parti si sono via via sempre più intensificate negli anni, alimentando una filmografia sempre più vasta alle varie latitudini, nessuna esclusa. Il più delle volte si tratta di una mera lotta per la sopravvivenza tra la minaccia marina di turno che attacca o si difende e chi solca o va a invadere il suo habitat. Il risultato è nella stragrande maggioranza dei casi una carneficina dove le perdite sono ingenti per entrambe le fazioni.
Tra le battaglie più recenti consumate sul grande schermo c’è quella al centro di Sea Fever, della quale abbiamo potuto vedere gli effetti nel corso della 19esima edizione del Trieste Science+Fiction Festival, laddove il film di Neasa Hardiman è stato presentato in concorso. L’opera seconda della cineasta irlandese ci porta al seguito di Siobhán, una solitaria studentessa di biologia marina che è costretta a trascorrere una settimana su un vecchio peschereccio arrugginito dove non va neanche tanto d’accordo con l’affiatato equipaggio. Quand’ecco che, in pieno oceano Atlantico, una misteriosa forma di vita avviluppa la barca. Una strana infezione contagia i membri dell’equipaggio e Siobhán dovrà rompere il suo isolamento e convincerli a fidarsi di lei, prima che tutti siano perduti.
Dunque non siamo al cospetto di una mattanza ma di una minaccia batteriologica che una volta entrata a contatto con l’uomo e averlo infettato ne provoca la morte tra lacerazioni e dolori che straziano la carne, non prima di averne alterato lo stato psicologico. Torna alla mente per analogie tanto Sfera quanto Virus letale, che in Sea Fever trovano una sorta di compendio. Ma chi conosce i precedenti sul piccolo e grande schermo della Hardiman ne conoscerà il modus operandi che vuole il genere, indipendentemente da quale esso sia, semplicemente come uno specchietto delle allodole per affrontare temi ed esporre il proprio punto di vista. In questo caso il monster movie altro non è che un pretesto per dare alla luce un plot che va a collocarsi in quell’area chiave della Settima Arte in cui le storie piene di tensioni e di stimoli si vanno a fondere con un eloquente linguaggio figurativo e con personaggi più o meno complessi. La protagonista e le dinamiche che si vengono a creare sul peschereccio tra lei e il resto dell’equipaggio ne sono la cartina tornasole. Il focus in effetti si sposta su questo microcosmo sociale sotto attacco, nel quale a venire a galla sono per chi ha occhi e orecchie per intravederli sotto la superficie della narrazione principale (lo scontro tra la creatura marina e chi occupa il peschereccio) problematiche più serie del nostro presente. In Sea Fever, infatti, una delle questioni più eticamente rilevanti che emerge dalla storia, che rappresenta l’aspetto più interessante dell’operazione, sta nel conflitto tra bisogno individuale e universale. In parole povere fregarsene e tornare sulla terra ferma nonostante l’infezione contratta oppure chiudersi in quarantena o lasciarsi morire in alto mare per evitare una pandemia. Alla visione la sentenza, ma una cosa è certa: la pellicola analizza con convinzione la contrapposizione tra la salvaguardia di noi stessi e quella degli altri. Il modo in cui questo tema viene sviscerato nelle pagine dello script e della trasposizione poi è senza dubbio il principale motivo di interesse e meritevole di attenzione, oltre al ritratto controcorrente che si fa dello scienziato di turno, normalmente raffigurato come un individuo insensibile, privo di emozioni e di scrupoli. La Siobhán impersonifica, attraverso la performance attoriale della brava Hermione Corfield, l’altra faccia della medaglia.
Dove invece il film viene meno è la componente più squisitamente tecnica da una parte e quella spettacolare dall’altra, appartenenti rispettivamente alla confezione estetico-formale e al ludico intrattenimento, qui entrambe ampiamente ridimensionate da soluzioni visive di basso impatto nella resa e deficitaria quando si tratta di chiamare in causa i VFX (vedi il finale dove l’uso troppo artigianale del green screen lascia a desiderare) e il coinvolgimento attivo dello spettatore.
Francesco Del Grosso