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Last Sunrise

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VOTO: 6

Fuck you tomorrow!

Dalla sua fondazione avvenuta nel 2000, il Trieste Science+Fiction Festival non aveva mai ospitato nel proprio cartellone un film made in China. Strano a dirsi eppure è così, ma del resto c’è sempre una prima volta per tutto e quella per la kermesse giuliana risponde al titolo di Last Sunrise. La scelta della direzione artistica è caduta sulla pellicola d’esordio di Wen Ren, atterrata alla 19esima edizione dopo un fortunato tour nel circuito festivaliero internazionale.
Una scelta che vista l’importanza dell’avvenimento sarebbe potuta andare sul blockbuster di turno (The Wandering Earth di Frant Gwo per intenderci, costato oltre 50 milioni di dollari ne ha già incassati oltre 600) e invece si è deciso di puntare sull’indi che non ti aspetti (meritorio e lodevole se si tiene in considerazione il lavoro di ricerca e diffusione che dovrebbe fare un festival), coraggioso produttivamente, un po’ meno nei contenuti che vuole veicolare perché dal racconto che lo anima è stata epurata qualsiasi implicazione socio-politica di più o meno stretta attualità. Ciò a nostro avviso rappresenta un impoverimento per un’opera che avrebbe, grazie al filtro del genere, potuto affilare la lama per andare a incidere il proprio pensiero o ammonimento su qualche tematica calda o scomoda (vedi il nucleare, l’ambiente e via dicendo). Al contrario si è preferito addomesticare uno script che si limita a raccontare una storia di fantascienza minimalista, guardando ai modelli cinematografici e letterari occidentali (su tutti le pagine di Cormac McCarthy), dando origine a una pellicola derivativa priva di una propria identità che nulla ha di orientale se non la provenienza e che allo stato delle cose sarebbe potuta nascere a qualsiasi latitudine.
Un’occasione persa, dunque, che lascia l’amaro in bocca per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato per via di una censura preventiva da parte dell’autore, intimorito dalle possibili misure restrittive. Un grandissimo peccato visto l’enorme potenziale inespresso e il talento indiscutibile dimostrato dal regista dal punto di vista della messa in quadro e della direzione degli attori. A maggior ragione se si pensa che Last Sunrise è a tutti gli effetti, incredibile a dirsi, uno dei rarissimi prodotti di fantascienza realizzati da una cinematografia che non ha mai – produttivamente parlando – approfondito e percorso con convinzione le strade del suddetto genere. Discorso valido anche sul fronte distributivo, in un mercato dove perfino gli ultimi episodi di Guerre Stellari sono stati dei flop al botteghino.
Detto questo, è inutile piangere sul latte versato. Di conseguenza, l’analisi critica va a concentrarsi su quello che Wen Ren ha deciso e voluto portare sul grande schermo, ossia un dramma post-apocalittico che ci catapulta in un futuro basato sull’energia solare che precipita nel caos quando il sole scompare, obbligando un solitario astronomo e la sua spumeggiante vicina a lasciare la città. La temperatura scende sotto lo zero e l’ossigeno si esaurisce: l’unica speranza è nel Distretto Quattro, la loro destinazione. Letta così la trama sembrerebbe prospettare chissà quali scenari, quando invece Last Sunrise restituisce una serie di metropoli spopolate e coperte da uno strato di ghiaccio che ha cancellato la vita e fermato il tempo. Non siamo dalle parti di The Day After Tomorrow a livello di impatto, ma gli sciacalli e i disperati sopravvissuti comunque non se la passano per nulla bene, compresi i due protagonisti, qui interpretati dai convincenti Jue Zhang e Ran Zhang.
Il cineasta asiatico firma un road movie dove su una base Sci-Fi scarnificata legata alla catastrofe atmosferica dovuta allo spegnimento del sole viene innestata una sotto-trama romance che serve per tenere uniti le due figure principali. Ne viene fuori un viaggio a tappe in lande di cemento e terra, grattacieli e strade ghiacciate, che racconta di un sentimento che si accende mentre tutto quello che c’è intorno va via via scomparendo inghiottito da un buio eterno. Più che la componente legata al genere e al disastro terrestre, la cui portata è circoscritta e non estesa dal racconto al resto del pianeta come per altre operazioni analoghe (vedi The Core o 2012 ad esempio), ciò che lascia tracce drammaturcgiche nello spettatore sono dunque le dinamiche di coppia che trovano terreno fertile nei riusciti scambi dialogici e in alcuni momenti di riflessione. Il che permette alla narrazione di tenersi a galla nonostante i problemi ritmici che affliggono la timeline, restituendo al pubblico qualche folata emotiva e una serie di scene degne di nota come ad esempio le visioni di Chen Mu nella casa dei genitori deceduti.

Francesco Del Grosso

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