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Adorabile nemica

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VOTO: 6.5

Tutti per Shirley

Ogni interprete di vaglia ha diritto al proprio “film-monumento” che coroni un’intera carriera. Ben meritata, tale onorificenza, arriva per la ottantatreenne Shirley MacLaine con Adorabile nemica – assai più significativo il titolo originale The Last Word, l’ultima parola – autentico mausoleo per immagini dedicato agli splendori dei tempi che furono della diva, le cui immagini d’epoca hanno un po’ la funzione di punteggiatura per l’intero corso del film. Solamente per un malinteso senso del pudore infatti, in Adorabile nemica, Shirley non interpreta un’anziana attrice sul viale del tramonto come logica avrebbe preteso; nella fattispecie è infatti Harriet, un’ex pubblicitaria di livello, molto ricca ma penalizzata dal carattere, ad un primo impatto, a dir poco perfezionista e presuntuoso. Avrà ovviamente modo di dimostrare che le apparenze ingannano e che sotto la superficie batte un cuore differente grazie all’incontro con Anne (Amanda Seyfried), aspirante scrittrice di talento confinata dal caporedattore del giornale per cui lavora alla scrittura di necrologi. Proprio questa sarà la motivazione del fatidico incontro: Harriet chiede di incontrare Anne perché vuole un articolo commemorativo all’altezza, da leggere ed eventualmente modificare ben prima della propria dipartita. Tutto il resto della narrazione si muove sui binari di una prevedibilità non sgradevole, a patto di comprendere subito le regole e stare al gioco di una celebrazione che prevede canoniche tappe forzate quali una sorta di “adozione” a mo’di riscatto, da parte di Harriet, di una bambina afroamericana socialmente svantaggiata; un’improvvisata carriera da d.j. radiofonico ed un tradizionale nuovo incontro con una figlia con la quale non parlava da anni. Niente di nuovo sotto il sole, dunque; però la descrizione dell’evolversi del rapporto con Anne, all’inizio problematico, funziona e il cambiamento parallelo della coppia di amiche, nei rispettivi ambiti personali, fa sì che la soglia di attenzione verso il lungometraggio non scenda mai sotto il livello di guardia, sfociando nelle paludi della noia.
A servire il tutto, con un mestiere pari solo alle promesse non mantenute, Mark Pellington, regista ultracinquantenne il quale, al tramonto dello scorso millennio, aveva fatto sperare nella nascita di un solido professionista (Arlington Road – L’inganno, 1999), per poi al contrario abbandonare qualsiasi velleità a vantaggio di una carriera di stampo, prevalentemente, televisivo. Nello specifico è stato comunque sufficiente puntare la macchina da presa su Shirley MacLaine, facendo in modo di farla rimanere nell’inquadratura quanto più tempo possibile: il suo show di transizione esistenziale da bisbetica “ammalata” di solitudine a vulcano incontenibile con battuta sarcastica incorporata non può lasciare insensibili sia gli attempati ammiratori della prima ora che le ultime generazioni. Tanto da indurre persino lo scorrimento di qualche lacrimuccia nel finale di prammatica, durante il quale la fine naturale della nostra eroina coinciderà, grazie al suo testamento fisico e simbolico, con una serie di nuovi inizi per ogni personaggio di contorno, manco a dirlo in prevalenza femminile.
Augurandoci quindi di rivedere Shirley sul grande schermo quanto prima, intanto salutiamo con affetto questa sua performance, chissà se l’ultima, da vera e propria mattatrice. E certo ricordando con un pizzico di nostalgia le ineguagliabili collaborazioni cinematografiche con autori del calibro di Billy Wilder e Vincente Minnelli. Ormai tra le poche icone rimaste di una Hollywood che sta pian piano scomparendo in religiosa obbedienza al tempo tiranno.

Daniele De Angelis

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