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Sara

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VOTO: 7

Que sera, sera… e che Sara!

Eclettico. Attento al sociale. Reduce da incursioni nei generi più disparati. Votato a rappresentare sullo schermo storie nelle quali può prevalere ora la tenerezza, ora la curiosità nei confronti di istinti sadici e malati. Lo si potrebbe descrivere così Herman Yau, portavoce di un cinema che, almeno nei suoi esiti più interessanti, sa fondere l’artigianale, ruspante e caleidoscopica impronta formale con osservazioni sulla realtà hongkonghese dal taglio spesso intelligentemente critico; per quanto poi, nel corso di tale ricerca cinematografica, si sia fatto notare anche qualche piccolo passaggio a vuoto, associato magari a parentesi narrative di dubbio gusto. Come a riassumere (e comprimere) tali prerogative, il film presentato in questi giorni al Far East Film Festival edizione numero diciassette, Sara, non è parso certo scevro di difetti, sapendo però riscattarli in virtù delle coraggiose scelte narrative e di un rapporto denso, materico, con la messa in scena.

Ciò che in primo luogo ci ha colpito di Sara è la ruvidezza con cui prende forma una storia di riscatto personale, che non può lasciare indifferenti. La protagonista è qui interpretata con la giusta dose di grinta da Charlene Choi, bellezza discreta, gran parlantina e sguardo affilato. Il personaggio di Sara ha subito durante l’adolescenza qualche grave abuso sessuale in famiglia. È finito a vivere praticamente per strada, dopo aver coraggiosamente mollato la pavida madre, il viscido patrigno (autore delle violenze) e un fratellino innocente. Facendo così si è messo in gioco e ha rischiato, a quel punto, anche di perdersi. Ma nel momento più difficile ha saputo trarre giovamento dall’incontro con un uomo maturo, potente ispettore scolastico ancora legato alla propria famiglia ma visibilmente attratto dalla ragazza, in cui si percepisce sin dall’inizio la tensione dialettica, tutt’altro che banale, tra un sincero desiderio di aiutare la giovane donna in difficoltà e quegli impulsi erotici, ben presto esternati; mai resi espliciti, però, in modo realmente aggressivo o ricattatorio. Gran bel personaggio, quello di Sara. E lo stesso si può dire, volendo, del personaggio maschile cui l’esperto Simon Yam sa conferire il giusto spessore.

Un altro pregio del film di Herman Yau, la cui articolata struttura narrativa fa viaggiare di continuo i personaggi tra passato e presente, coincide del resto con la capacità di appassionare il pubblico alla vicenda privata della sua eroina, aprendo poi significative finestre sulla realtà sociale di Hong Hong, e non solo. Il fatto che una Sara sempre più emancipata diventi, in seguito, giornalista votata  a smascherare le più torbide collusioni tra politica, mondo degli affari e vita notturna della metropoli asiatica, come anche il suo investigare sulla squallidissima e degradante pratica del turismo sessuale in Thailandia, è indice del complesso rapporto con il reale avviato, seppur con qualche incertezza di tono, in un’opera cinematografica sufficientemente magmatica e stratificata. La parentesi emotivamente scioccante nel sud-est asiatico, più in particolare, finisce per esercitare suggestioni profonde; tanto che la ricognizione di certi ambienti ci ha fatto tornare in mente, addirittura, il segmento thailandese dello splendido e sconvolgente documentario di Michael Glawogger, Whore’s Glory.
Peccato, soltanto, che nella parte finale affiorino alcune crepe, dovute anche a mancanza di tatto nei confronti degli aspetti più delicati, intimi, contraddittori, dell’intera vicenda. Una maggiore sobrietà non avrebbe guastato sia nella sequenza dell’incontro di Sara col suo vecchio amante, ormai gravemente malato (ed eccessivamente corrotto nei lineamenti da un make-up quasi “zombesco”), sia nel catapultarsi della giovane al capezzale della madre morente, quale coronamento di un inserto narrativo che a livello emotivo e per la sua stessa dinamica finire per minare, giocandoci sopra un po’ troppo, la credibilità di una situazione così importante nell’economia generale del film. Sono scivoloni non trascurabili, questi, ma che inficiano solo in parte l’appeal incisivo e ardito del lungometraggio di Herman Yau.

Stefano Coccia

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