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Robert Bolt, per tutte le stagioni

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Alla ricerca del tempo perduto

Baluardo di classicità, come un complesso scultoreo d’imponenti dimensioni e levigatezza apollinea, Robert Bolt, quest’oggi centenario in contumacia (morte lo colse nel 1995), ha sfidato, controcorrente, le rapide del tempo. In primo luogo, perché, dei film che ha scritto, è andato ad attingere le trame avvincenti, spesso incentrate su personaggi in conflitto con la loro epoca o società, nel passato remoto, senza la pretesa di attualizzarne a ogni costo i contenuti, ma con l’essenziale intento di avvistare le scaturigini di fenomeni e realtà contemporanei. In secondo luogo, perché, in una congiuntura in cui il cinema sussultava al ritmo sincopato dei singulti e delle intemperanze di un linguaggio nuovo, free o nouvelle che aggettivar si voglia, Bolt ha preferito votarsi a modalità espressive assai più tradizionali, concorrendo a definire la cifra di un audiovisivo tuttora identificato come squisitamente british, nella magniloquenza scenografica e sartoriale, certo, e, ancora, nella limpidezza espositiva, ma anche nel suo gusto accademico, conservativo e rétro. Non a caso, il regista d’elezione di Bolt fu David Lean, il cineasta ideale per sviluppare quella narrazione d’ampio respiro, a misura di kolossal, che lo scrittore amava, servendola, molto bene, con dialoghi eleganti, personaggi plastici e densi, una sana propensione alla spettacolarità. E senza rifuggire l’alta letteratura, anche qualora ciò abbia comportato sfondoni avventati. Sarà stato un successo, sarà valso al suo sceneggiatore il primo Oscar, ma Il dottor Zivago (Doctor Zhivago, 1965) così non si doveva fare, perché tombare le profondità metafisiche del romanzo di Boris Pasternak per trarne un mélo da esportazione folkloristico e lacrimevole equivalse a uno scempio. Morale: l’infallibilità non esiste, neppure per i grandi.
Originario del Cheshire, rampollo di una rigorosa famiglia metodista, Bolt seguì studi storici all’università di Manchester, manifestando, fin da giovane, l’interesse per quel passato che avrebbe sostanziato i suoi copioni sia cinematografici che teatrali, perché anche per il palcoscenico egli scrisse parecchio, affermandosi come uno dei più prestigiosi drammaturghi del Novecento.
Il sodalizio con Lean significò molto e ne derivarono tre lungometraggi. Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, 1962) è titolo che quasi non necessita di presentazioni, perché la figura magnetica di Peter O’Toole tra estuose sabbie mediorientali ha la perentorietà metonimica delle icone, sacre o profane che siano, e il racconto delle imprese del condottiero antiottomano, offerto in un impetuoso flashback a partire dall’incidente motociclistico che lo uccise, ha inchiodato alla poltrona generazioni di spettatori. Quindi, venne Il dottor Zivago e, poi, nel ‘70, l’autentico capolavoro La figlia di Ryan (Ryan’s Daughter), che, addosso a Sarah Miles (di Bolt due volte moglie), taglia il personaggio ispirato e sensibile di una giovane inquieta e mercuriale che dovrà vedersela con l’ottusità della gente di un recondito villaggio irlandese, mentre la Prima guerra mondiale incide ferite insanabili su corpi e anime. Difficile dimenticare, per umanità, anche la figura del vecchio marito, il buon maestro del paese, interpretato da Robert Mitchum, a rifinire una scrittura che ripercuote la sua eccellenza sullo schermo e contribuisce, decisiva, all’esito finale.
Il contesto travagliato che incornicia, invece, la nascita della chiesa anglicana nell’Inghilterra di Enrico VIII venne riprodotto così efficacemente, nel ‘66, da Un uomo per tutte le stagioni (A Man for All Seasons) che Bolt si aggiudicò il secondo Oscar e la pellicola di Fred Zinnemann rimane un caposaldo del period drama in pompa magna. Portento di perspicuità, capace di affrontare con ammirevole chiarezza una materia controversa e incandescente, il film reca ben più che una labile impronta del suo screenwriter, perché discende da un lavoro teatrale nel quale Bolt, che vinse pure un Tony Award, aveva trasposto un suo precedente radiodramma. I tormenti della coscienza, la protervia del potere e, a dominare la scena, il Thomas More di Paul Scofield, interprete anche del play. Semplicemente mitico.
Faticoso reggere il paragone con opere simili, ma, tutto sommato, non venne male neanche La tenda rossa di Mikhail Kalatozov, sontuosa coproduzione, anche italiana, che, nel ‘69, ricostruiva la precipitazione del dirigibile Italia sui ghiacci artici e la tragedia che ne sarebbe seguita. Bolt non fu accreditato, ma la sua influenza si coglie, magari proprio in quell’intrigante struttura a flashback con cui l’Umberto Nobile di Peter Finch, visitato, nottetempo, da fantasmi che “incarnano” altrettanti sensi di colpa, ripercorre i luttuosi accadimenti di allora. E ribatte alle accuse.
Con Mission (The Mission) di Roland Joffé, Palma d’oro a Cannes nel 1986, Bolt, ormai anziano e segnato dalla cardiopatia che vessò buona parte della sua vita, riafferma predilezioni tematiche ed estetiche nella rievocazione di un Settecento sanguigno e vorticoso e nel confronto emozionante tra l’arroganza della cultura europea e il mistero maliardo di un’America selvaggia. Fu, Mission, il suggello del percorso di grandiosità creativa di un intellettuale raffinato e artista poliedrico, ma anche di un uomo d’impegno civile capace di posizioni, talora, muscolari (solo per dirne una, le sue proteste contro la proliferazione nucleare gli costarono, negli anni Sessanta, alcune settimane di carcere). Un intellettuale e artista unico che, per quanto talento illumini Christopher Hampton e Tom Stoppard, e parliamo di nomi eminenti, non ha, forse, eredi che lo eguaglino. Ora e per all seasons.

Dario Gigante

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