Le buttane pasoliniane
«E adesso, Enzo, dovresti toglierti le mutandine!»
(Aurelio Grimaldi sul set de Le buttane)
Tra i diversi registi autodefinitisi (con afflato autoreferenziale) o bollati (dalla critica) come “post-pasoliniani”, Aurelio Grimaldi è certamente quello che ha ricalcato maggiormente l’opera, letteraria e cinematografica, di Pasolini. Sin dal suo esordio registico con La discesa di Aclà a Floristella (1992), l’omaggio a Pasolini è evidente, e si è poi completamente concretato con la cosiddetta “Trilogia pasoliniana”, composta di: Nerolio (1996), Rosa Funzeca (2002) e Un mondo d’amore (2003). La carriera di Grimaldi, non esente da necessarie critiche e vistosi scivoloni artistici – oltre a continui flop commerciali – è comunque nel complesso apprezzabile, tanto per la riverenza verso il poeta friulano quanto per aver messo al centro del discorso delle sue opere un Sud ancora arretrato a livello sociale. Chiaramente, all’autore siciliano gli sono sempre mancati una vera originalità visiva, per i troppi rifacimenti stilistici pasoliniani, e anche quell’intrinseco vezzo scandalistico proprio dell’autore friulano. Per tanto, in molte pellicole di Grimaldi, c’è uno strato artificioso tra il rifare e il citare il suo mentore, che fa risultare l’opera non completamente sincera. Le buttane (1994), che fu presentato al 47º Festival di Cannes, rimane una delle sue pellicole più compatte e originali, ma analogamente è quella in cui si evidenziano tanto i pregi quanto i difetti dell’autore.
Alla base del film c’è l’omonimo romanzo di Grimaldi, pubblicato nel 1989. Come già Pasolini fece con i romanzi e i racconti borgatari, anche Grimaldi, a quel tempo maestro elementare (altro aspetto pasoliniano), indagò, girando nei meandri della città palermitana, sul mondo della prostituzione, prendendo precisi appunti sulle loro misere vite e il mondo (maschile) che le circondava. Le buttane film segue quella medesima impostazione, mettendo in scena squarci di vita di alcune prostitute di basso rango, ognuna con la sua vita, professionale o privata, tra solitudine o malcelata accettazione. Su questo plot drammatico, non mancano momenti di allegria (il freeze frame finale cristallizza questo piglio), e spesso il film è punteggiato di scene grottesche (il protettore Toti canta con un fallo di gomma a mo’ di microfono). Per mostrare questi piccoli episodi quotidiani e stagionali (il film è inframmezzato da qualche didascalia che riporta le festività religiose), Grimaldi utilizza i fade out per chiuderli. Ma gli stessi fade out fungono anche da “veli pietosi” che ricoprono quegli attimi, tra ripetizioni sessuali (Veronica recita i medesimi orgasmi con ognuno dei clienti) o l’incomunicabilità tra due persone vicine ma lontane (i silenzi tra il ragazzo e Bonuccia nella stanza dell’albergo). Le buttane è uno degli ultimi esempi – e uno dei migliori – della corrente neo-neorealista creatasi tra il 1989 (Mery per sempre, di Marco Risi) e il 1994 (Il branco, sempre di Risi), in cui si cercava di cristallizzare la realtà cruda dei bassifondi di fine millennio. Se da un lato c’è un cast di attori professionisti, di matrice teatrale (le attrici che interpretano le prostitute e Luigi Burruano nel ruolo del pappone), dall’altro c’è un gruppo di ragazzi e uomini presi direttamente dalla strada, che interpretano i clienti. Questa miscela rende ancor più realistico l’impatto visivo, perché i corpi dei clienti sono imperfetti, fisicamente brutti, mentre le prostitute, di bellezza normale, sono conturbanti rispetto agli altri.
C’è molto Pasolini in questo terzo lungometraggio di Grimaldi, non solo per l’evidente scelta di narrare storie “borgatare”, ma anche per i chiari omaggi cinefili, ravvisabili in particolare nel personaggio di Bonuccia: ha il figlio in collegio, e quanto prima spera di poter comprare una bottega per riaverlo accanto (proprio come in Mamma Roma); lo stupro che subisce presso dei montarozzi (diretta citazione della violenza che subisce Bruna in Accattone). A questi tocchi cinefili, si potrebbe aggiungere l’episodio del giovane marchettaro con l’intellettuale che termina tragicamente, un rimando, rielaborato, al delitto Pasolini. Ugualmente gli aspetti estetici, che fasciano la pellicola. Da un lato la scelta di accostare a qualche situazione povera la musica classica, in particolare Bach e Vivaldi (due compositori usati da Pasolini), come se fosse un contrappunto epico; e dall’altro quella di fotografare il film in un crudo bianco e nero per evidenziare maggiormente la sgradevolezza delle storie e dell’ambiente circostante. È proprio questo B/N, curato magnificamente da Maurizio Calvesi, che sovente stride, perché troppo estetizzante rispetto a quel bianco e nero preistorico di Accattone, più aderente alla bassezza della storia. Senza tener in conto delle pecche di qualche forzata scena drammatica, che mal si accosta a scene più vivide e reali.
Roberto Baldassarre