Lasciate – quasi – ogni speranza o voi che lo guardate
«La sua stupidità finisce
davvero per corrompere,
e se ne esce tutti imbrattati»
Roland Barthes
Guardando La solita commedia – Inferno, si ha la medesima sensazione che prova il personaggio di Dante che osserva l’Italia odierna in modo disorientato e stordito da cotanto decadimento morale. Da critici cinematografici, o anche da semplici spettatori avvezzi a un certo cinema per lo meno realizzato discretamente, nell’assistere a questa pellicola – e altre similari – si rimane sgomenti di come si sia ridotta la commedia (all’) italiana del presente. In poche parole, un degrado che satura lo schermo, e l’esergo di Barthes (1915-1980), che inveiva contro Versailles (1954) di Sacha Guitry, è perfetto per definire tali derive “comicarole”. Dietro la spessa superficie comica che propina la pellicola, fatta soprattutto di grevi battute, è vero che c’è la voglia di raccontare con irriverenza il Belpaese, però si rimane lordati dalla troppa stupidità e volgarità gratuita. Per non parlare del tentativo iconoclastico, che allestisce una parodia del Paradiso attraverso un Dio beone, un Gesù sfaccendato e una congrega di Santi che battibeccano con parolacce. Questa, più che una visione veramente trasgressiva, è semplicemente una scemata da liceali in vena di fare i fighi provocatori. A pensare che La solita commedia – Inferno, diretta a sei mani da Fabrizio Biggio, Francesco Mandelli e Martino Ferro, voleva essere una “sterzata” rispetto ai due prodotti precedenti interpretati sempre dal duo Biggio/Mandelli, cioè I soliti idioti (2011) e I 2 soliti idioti (2012), che purtroppo (per loro) si è rivelata un insuccesso. Anzi, doppiamente flop.
Eppure, dietro il fallimento – meritato – ai botteghini di questa pellicola, e agli strali – giustissimi – lanciati dalla critica, bisogna ammettere che questa commedia è un filino migliore rispetto alle due pellicole precedenti. I due attori e i loro autori hanno tentato di alzare il tiro qualitativo, cercando di realizzare un prodotto migliore a livello di contenuti. Hanno preso “La Divina Commedia” per descrivere l’Italia infernale del nuovo Millennio, corroborando la struttura iniziale con tentativi d’irriverenza e citazioni cinematografiche (ad esempio la scena cult di Trainspotting). Peccato che le buone intenzioni si siano fermate all’idea, perché poi nell’atto pratico hanno fatto nuovamente leva su quell’umorismo coprolalico che gli aveva dato gloria prima in televisione (2009-2012) e poi con i due lungometraggi. Non si vuole fare una crociata contro la blasfemia, semplicemente far notare come questa pellicola e altri prodotti simili ormai affogano in una scurrilità gratuita. Il sommo Dante Alighieri nel suo capolavoro aveva utilizzato trivialità, ma mai fine a se stesse (tra i molti versi, c’è il famoso «[…] ed elli avea del cul fatto trombetta»), mentre in questo caso, una delle prime battute del film, reiterata più di una volta, è l’inutile: «Io sono Minosse, ma tu chi cazzo sei?». In pratica, si è passati da un sommo Vate a un colmo water.
Però, mettendo da parte le pesanti volgarità, al 98% inutili, e mettendo da parte quelle scene che vorrebbero essere forzatamente iconoclaste (il già citato Paradiso), La solita commedia – Inferno, popolata da personaggi mostruosi, avrebbe potuto essere una fulgida variante de I mostri di Dino Risi, “divina commedia” filmica del 1963. Tra gli svariati personaggi che popolano questa commedia, quasi tutti interpretati da Biggio e Mandelli che come Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel citato film fanno una parata d’imbruttiti personaggi, ci sono delle figurine che sono delle vere chicche. Ad esempio, sono molto divertenti i personaggi del logorroico Giorgio Panetta (Mandelli) oppure il maniaco dell’ordine Simone Bellavia (Biggio); o anche i due giovani nerd impegnati con la password del Wi-Fi, o il ragazzo che si esprime sempre e solo con «Aooh!». Peccato che queste intuizioni si perdano in una comicità lercia, certamente specchio dell’Italia odierna, ma più che fustigare questa squallida deriva della società, per mezzo di una rappresentazione pugnacemente grottesca, la alimenta propinando quelle brutture senza una profonda critica e puntando su una cafona demenzialità (o demenza).
Roberto Baldassarre