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Rapina a Stoccolma

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VOTO: 5.5

La “sindrome” del grande colpo

Curiosamente, per gli strani destini che spesso colpiscono le vie distributive italiche, a stretto giro di posta sono arrivati in sala due lungometraggi incentrati su alcune delle rapine più assurde della cronaca internazionale. Ci riferiamo ad American Animals di Bart Layton e a questo Rapina a Stoccolma, diretto dal canadese Robert Budreau. Nonostante le forze produttive siano di nazionalità geograficamente limitrofa, come ambientazione e non solo ci sarebbe di mezzo più di un oceano, sia fisico che simbolico. Tanto infatti era sperimentale nella forma il primo film, quanto invece di impostazione tradizionale il secondo. Parliamo, beninteso, solamente della facciata. Poiché in realtà Stockholm – questo il titolo originale – cova evidenti ambizioni a stento celate sin dalle primissime battute.
Ispirandosi ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1973, l’opera di Budreau riporta indietro le lancette del tempo allo scopo di ricreare il contesto e gli umori di un’intera epoca di movimenti alternativi e contestazione da poco soffocata ma ancora latente. Due balordi, Lars e Gunnar, prendono d’assalto la gigantesca Kredit Bank locale, facendo ostaggi nonché pretendendo di effettuare, con pochissime possibilità di riuscita viste le caratteristiche individuali del duo, il colpo del secolo, capace di dare una svolta alle loro sbalestrate esistenze.
L’obiettivo ultimo di Budreau è alquanto palese: trasformare, come in effetti pare sia accaduto sul serio, un atto di violenza e prevaricazione in una sorta di teatro dell’assurdo, con i vari “attori” sul proscenio a recitare una sorta di parte in commedia venata di ironia al nero sulla quale grava una specie di predeterminazione dall’alto. Una scelta coraggiosa che avrebbe però avuto bisogno di una differente cura della sceneggiatura, con un approfondimento del background di ogni personaggio chiamato in causa di un certo spessore. Al contrario il Budreau autore anche dello script si limita ad un lavoro piuttosto ordinario, togliendo involontariamente quel fascino carismatico di cui sono sicuramente in possesso interpreti di valore come Ethan Hawke (Lars), Mark Strong (Gunnar) e Noomi Rapace, l’unica svedese effettiva tra i protagonisti nella parte di un’impiegata della banca immediatamente “sequestrata” dai due. Le virgolette, in questo caso, sono d’obbligo perché, se avete sentito parlare della cosiddetta Sindrome di Stoccolma – cioè dell’incredibile rapporto affettivo che può crearsi tra rapitori e rapiti – ebbene prende il nome proprio dal fatto ivi narrato. Purtroppo ciò che avrebbe potuto rappresentare il valore aggiunto di Rapina a Stoccolma, costituisce invece il vero tallone d’Achille di un’opera che non fornisce molte spiegazioni su come e perché abbia avuto luogo tale processo. Il triangolo dei personaggi citati si arena presto dell’ovvio rimanendo ben distante dall’empatia spettatoriale. Così come l’intero film, troppo poco coraggioso a livello stilistico per essere ricordato, ma pure privo di quella “teatralità” necessaria a renderlo possibile e memorabile operazione transgenere. E pensare che, a titolo di curiosità, tra i nomi dei produttori ci sarebbe anche quello di Jason Blum con la sua Blumhouse. Stavolta del tutto incapace di fornire una qualsiasi impronta marcata nei confronti di un prodotto che si arresta sin troppo lontano dal traguardo del film di culto che sarebbe potuto diventare se affidato ad altre mani.

Daniele De Angelis

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