Espiazione
Un lavoro estremamente raffinato e personale Demons, ultima fatica del cineasta di Singapore Daniel Hui. Presentato alla Berlinale 2019 e, in anteprima italiana, alla cinquantacinquesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, questo interessante lavoro, abbracciando il cinema di genere, con gradite venature dell’horror e del thriller psicologico, si rivela, in realtà, una grande allegoria di quello che è il mondo dello spettacolo e, nello specifico, la figura del regista stesso e del suo controverso rapporto con gli attori.
Strutturato in due parti ben distinte, questo importante lavoro di Hui inizialmente si concentra sul personaggio di Vicki (Yang Yanxuan), una giovane attrice sensibile e insicura, la quale, lavorando costantemente su sé stessa e sui suoi demoni interiori, risente fortemente dell’opinione della gente – ora del regista, ora degli stessi spettatori che la osservano con aria di scherno attraverso i vetri di una finestra – e, spesso e volentieri, non si sente all’altezza delle prestazioni che le vengono richieste. La sua misteriosa sparizione, tuttavia, avrà grande influenza sulla stabilità emotiva del regista con il quale si stava preparando per un progetto importante. Ed ecco che, improvvisamente, il punto di vista cambia e, nella seconda metà del lungometraggio, è lo stesso regista Daniel (Glen Goei) a essere seguito passo passo dalla macchina da presa, anch’egli in preda a visioni, allucinazioni e pesanti sensi di colpa per la scomparsa della ragazza.
Come già si evince dalla trama, dunque, il presente Demons è, probabilmente, il lavoro più personale di Daniel Hui (non a caso il personaggio del regista si chiama proprio come lui). Un lavoro, il presente, che, se osservato nel suo complesso, ci appare quasi come una confessione, come un flusso di coscienza in cui ogni più atavica colpa viene osservata sotto la lente di ingrandimento (o, sarebbe meglio dire, davanti all’obiettivo della macchina da presa), per una soluzione che ci appare, allo stesso tempo, sia condanna che liberazione.
Al fine di mettere in scena ciò, Daniel Hui si è affidato a ogni possibile suggestione visiva e uditiva, dedicando un enorme spazio anche alla componente onirica e surreale (particolarmente d’effetto, a tal proposito, il momento in cui il regista regala a Vicki un pesce morto che la ragazza dovrebbe indossare mettendoselo in testa).
Al via, dunque, numerose scene in penombra, raffinati giochi di luci e ombre, misteriose telefonate e, non per ultimi, colori sgargianti come se venissero illuminati da luci al neon, i quali sono per noi tanto disturbanti, quanto lo sono per gli stessi protagonisti.
Non ha paura di osare, Daniel Hui. Non ne ha mai avuta e non ne ha nemmeno nel presente Demons, soprattutto quando è il momento di mettere in scena l’interiorità stessa dei personaggi, piuttosto che la loro vita come appare a chi li osserva dall’esterno nel quotidiano. E se, a tratti, la messa in scena stessa ci appare indubbiamente sfilacciata, visto nel complesso il presente lavoro si rivela, al contempo, magnetico e respingente. E non erano proprio queste, forse, le iniziali intenzioni del regista?
Marina Pavido