Situazionismo e Libertà
Avevamo lasciato Stefano Petti alle prese addirittura con Pier Paolo Pasolini, con la sua scomoda e comunque sempre attuale eredità, assieme a un sodale d’eccezione: Alberto Testone, odontotecnico di Fidene, aspirante attore e sosia del grande cineasta e letterato, al punto di essere chiamato spesso ad interpretarlo sia a teatro che al cinema. Già in questo Fatti corsari (2012) la vena un po’ naïf del Petti film-maker emergeva vigorosamente. Eppure ricordare Pasolini e la sua tragica scomparsa ancora comportava un piglio più rigoroso.
Al contrario Paolo Virzì è vivo e vegeto, anzi, per tutta la durata di questo spericolato tributo a lui e al suo cinema pare fare tutti gli scongiuri possibili, quasi più da napoletano che da livornese DOC, arrivando con pregevole (auto)ironia a constatare che certe opere, per lui, sono più consone se dedicate a coloro che già intravvedono i Campi Elisi.
Peraltro Petti si è potuto qui avvalere di nuovi compagni d’avventura: il produttore Enrico Pacciani e il “dinamico duo” composto da co-sceneggiatori Alessio Accardo e Gabriele Acerbo, autori in precedenza del libro My name is Virzì. L’avventurosa storia di un regista di Livorno. Già la varietà di toni riscontrabile in tale saggio prefigurava forse la piega che avrebbero preso le cose…
Fatto sta che l’approccio così temerario e guascone di un terzetto determinato ad esporsi spesso, nel film, di fronte alla videocamera, ovvero “l’irritabile Petti”, “Il nostalgico Acerbo” e “il logorroico Accardo” (stando ai nomignoli citati scherzosamente all’inizio dell’opera) ci ha conquistato visceralmente; specie se paragonato al timbro di altri documentari parimenti presentati alla Festa del Cinema di Roma 2023, vedi ad esempio il decisamente più ricco (produttivamente parlando) ma in compenso così convenzionale, pesante, imbolsito Io, noi e Gaber, fluviale lungometraggio nel corso del quale Riccardo Milani sembra spesso più interessato alle sciatte opinioni di una “conventicola” (cfr. Caterina va in città, per restare in tema) di “radical chic” di sinistra che a Gaber stesso, tradendo così il pensiero dell’artista omaggiato.
Ben diverso lo spirito di Quel maledetto film su Virzì. Lo esprime molto bene una didascalia posta proprio all’inizio, quasi una dichiarazione di poetica, che appunto per questo riteniamo opportuno riportare integralmente:
“Questo film mostra comportamenti sconsiderati.
Le acrobazie a cui state per assistere sono state eseguite in condizioni di totale insicurezza esistenziale.
Non tentate MAI di fare niente di simile a casa vostra: rischiereste di uscire dal seminato come gli incauti protagonisti di questa storia.”
Da tali parole si deduce già che siamo nell’alveo di un’operazione cinematografica il cui taglio è alquanto ironico, situazionista e velatamente surreale. Filmare? Stalkerare? Estorcere confessioni sul set? Le tracce tendono a confondersi, in questo atipico documentario che è sì atto d’amore per il regista di cui si voluto parlare, Virzì, ma anche scardinamento e sfacciata esibizione dei meccanismi interni che regolano una piccola produzione cinematografica. Un po’ come era avvenuto a suo tempo, sul versante dei lungometraggi di finzione, per Il caricatore (1996) di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata.
Ciò non toglie che in Quel maledetto film su Virzì (divenuto poi visibile su NOW e su Sky Documentaries) pieghe anche molto interessanti e per niente scontate della filmografia del cineasta livornese escano fuori, alla distanza, nel fluire sconnesso e frammentario delle interviste, realizzate durante gli anni con svariate figure che hanno avuto rapporti professionali e/o personali con lui: dal portuale labronico che assieme ad altri firmò una lettera per “raccomandarlo” al Centro sperimentale di Cinematografia a Micaela Ramazzotti, passando per il fratello Carlo, la figlia Ottavia, il recalcitrante Valerio Mastandrea, la storica e imponente aiuto regista, Bobo Rondelli, Paola Tiziana Cruciani, Giuliano Montaldo. Sì, perché quello realizzato da Petti, Accardo e Acerbo è invero un folle pedinamento durato svariati anni, in cui probabilmente le incognite del Reale hanno fatto irruzione in scena persino più volte di quanto non appaia nel montato finale.
Per quanto poi Petti (auto)ironicamente polemizzi in scena sull’importanza di interviste e “repertori”, rispetto alle copiose dosi di metacinema, una sua rilevanza questi altri ce l’hanno senz’altro, nella sfaccettata architettura diegetica del film: compresi i divertenti interventi dei critici cinematografici. Con Gianni Canova in funzione quasi di “storyteller”. E a ruota i vari Enrico Magrelli, Mario Sesti, Pedro Armocida. Con nota di merito per il “virtuale battibecco” tra un Francesco Alò sempre molto frizzante e l’enigmatico Carlo Righetti, rappresentato in scena da un esilarante alter ego; poiché Righetti non è nome reale ma epitome di una delle più argute, provocatorie e dissacranti operazioni mediatiche compiute in Italia negli ultimi anni, a ridosso dello stato comatoso, involuto e autoreferenziale di certo giornalismo cinematografico.
Già questo sarebbe un esempio assai indicativo dello “scapigliato” Situazionismo cui abbiamo fatto riferimento più volte, nella nostra trattazione. Ma a coronamento di tutto ciò come non citare la fuga di Virzì in bicicletta, con un impagabile Favino a passeggio col cane che gliene dice quattro ai tre autori del film, chiosa altrettanto spassosa e di sicuro tra i momenti di cinema più alti della diciottesima Festa del Cinema di Roma.
Stefano Coccia