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Quel giorno d’estate

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VOTO: 7.5

Dolce assenza

Solo il cinema francese, memore della lezione immortale impartita dai vari Truffaut e Rohmer, riesce a mescolare quasi alla perfezione un poetico realismo di stampo esistenzialista a vicende comunque in grado fornire un ritratto attendibile del presente anche da un punto di vista sociale. Rientra alla perfezione nella ipotetica categoria Quel giorno d’estate diretto da Mikhaël Hers e presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 2018.
Il consiglio è quello di approcciarsi alla visione dell’opera senza indagare più di tanto nella trama. Perché lo script – opera dello stesso regista con Maud Ameline – cerca di riprodurre con la maggior precisione possibile i contorni ed i ritmi di un micro-cosmo esistenziale come tanti altri, “terremotato” però da un tragico evento di cronaca. David Sorel (bravissimo l’emergente Vincent Lacoste, ammirato tra gli altri film nel riuscito Ippocrate di Thomas Lilti) è un ventiquattrenne molto attivo che sbarca il lunario dedicandosi a molteplici lavoretti. Ha un legame particolare con sua sorella Sandrine, ragazza madre di una bambina di sette anni, Amanda. Orfani di padre, entrambi hanno sofferto dell’abbandono precoce della madre quando ancora piccoli. David, che affitta appartamenti per un proprietario di immobili a Parigi, conosce in questo modo Léna, giovane insegnante di musica con la quale scatta una simpatia ricambiata. Hers osserva questo quadro di “normalità” con sguardo sincero, impartendo alle vicende un ritmo quotidiano mai noioso ed anzi intriso di complice tenerezza. Almeno fino al giorno a cui fa riferimento la titolazione italiana, quello in cui ogni prospettiva è destinata a mutare radicalmente. Ed anche in tale frangente narrativo Hers è molto bravo a ricreare quell’atmosfera sonnambolica, quasi sospesa tra sogno e realtà tipica di un forte shock emotivo; un meccanismo di autodifesa che impedisce al singolo individuo di accettare una perdita troppo grande per essere metabolizzata in breve tempo. Anche Quel giorno d’estate, inevitabilmente, cambia allora pelle. Trasformandosi da piacevole diario quotidiano ad amara elaborazione del lutto prima nonché percorso di crescita e ricostruzione in una fase spontaneamente successiva. E sarà il rapporto tra zio e nipotina il fulcro di questo cambiamento.
Sussurrando, come costume dei buoni film privi di evidenti pretese commerciali o di una marcata impronta autoriale, Quel giorno d’estate pronuncia alcune verità di insondabile profondità. La più importante è che la vita può sempre riservare degli snodi inattesi, anche dopo una fase di buio totale che può avvolgerla. A contare è la disponibilità a viverla, provando a non rinunciare mai ad essa chiudendosi in un dolore in apparenza inestinguibile. Il film di Hers piace poiché non gioca la carta facile della rabbia e del risentimento, bensì quella assai più difficoltosa della ricerca di un proprio equilibrio interiore per i personaggi rimasti in vita. Ed è in questo frangente che, facendosi perdonare la svolta un po’ irrealistica della comparsa in scena della madre biologica di David (Greta Scacchi), la piccola Amanda (interpretata dalla prodigiosa Isaure Multrier) si carica il film sulle spalle, facendolo volare alto nei cieli dell’emozione più pura. Non a caso il titolo originale dell’opera di Mikhaël Hers è proprio Amanda, nel nome di una bambina la quale, utilizzando il film la riuscita metafora di un match di tennis a Wimbledon, comprenderà alla fine ciò che significa accettare gli eventi, magari ricordare tra le lacrime, ma senza arrendersi. Così racconta il lungo primo piano finale sul volto della ragazzina, tra un pianto di dolore ma anche di sollievo per un futuro in fieri davanti a sé. Un gran bel modo di chiudere un’opera talmente ricca di sensibilità che sarebbe un vero peccato lasciarla passare sotto silenzio.

Daniele De Angelis

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